L’ecologia vale 23 miliardi sul listino inglese

Gli esiti del vertice di Copenhagen sul futuro verde del mondo non preoccupano i guru del mercato. Gli indici della Borsa di Londra legati al green business – dal Ftse4Good Index al Ftse Environmental Opportunities Index – hanno una capitalizzazione complessiva di 23 miliardi di euro e sono ormai da anni il segmento del mercato che cresce più in fretta. “Ma non siamo che all'inizio”, precisa Will Oulton, responsabile del Ftse Group per gli investimenti sostenibili. La carica della finanza verde è appena partita, concorda Peter Dickson, responsabile del Fortis Clean Energy Fund. “E non è una bolla – aggiunge – anzi, l'impatto della rivoluzione sostenibile si allarga e influenza già diverse categorie di asset correlate, dalle materie prime all'immobiliare”. Sono queste le idee raccolte a una conferenza organizzata dalle banche più coinvolte nel green business a margine del vertice di Copenhagen. "Le società che salteranno per prime sul treno andranno lontano, le altre resteranno a piedi", prevede Eric Borremans, capo degli investimenti sostenibili di Bnp Paribas. I dubbi della politica non sono entrati in sala, perché tutti sanno che il business corre più veloce. “L'evoluzione darwiniana – rileva Oulton – si applica anche alle aziende, oltre che alle specie animali: non sono le più forti a sopravvivere, né le più intelligenti, ma quelle che si adattano meglio ai cambiamenti”. Basta osservare i numeri per capire quali saranno i settori che nei prossimi anni avranno i tassi di crescita più marcati. In ordine di rilevanza, secondo uno studio di New Energy Finance: le fonti di energia alternative ai combustibili fossili, l'efficienza energetica, i servizi di supporto ambientale, le tecnologie e infrastrutture idriche, le tecnologie di gestione dei rifiuti, le tecniche di controllo dell'inquinamento. New Energy Finance stima che gli investimenti globali nelle energie pulite dovranno spingersi fino a 500 miliardi di dollari l'anno, quasi il triplo del livello raggiunto nel 2008 (comunque già triplicato rispetto alla quota del 2005), se vogliamo ottenere una stabilizzazione delle emissioni di CO2, principale responsabile dell'effetto serra, e un declino dopo il 2020. Tutti i Paesi industrializzati, chi prima e chi poi, vanno in questa direzione. Lo schema europeo 20-20-20, già vincolante a prescindere dagli esiti di Copenhagen, mira a coprire entro il 2020 il 20% del fabbisogno di energia primaria con le fonti pulite, che oggi non arrivano neanche al 10%. Lo spazio di crescita, dunque, è enorme. Per centrare l'obiettivo, ogni Paese dovrà aumentare l'utilizzo di fonti rinnovabili nell'elettricità, nel riscaldamento e nei trasporti. Solo sul fronte dalla produzione elettrica pulita, gli investimenti europei dovrebbero passare da 3 a 8 miliardi l'anno. Va da sé che le fonti più interessate a questa crescita saranno l'eolico, il solare e le biomasse: nei prossimi dieci anni ci vorranno 6 miliardi d'investimenti per potenziare l'eolico, 16 miliardi per il solare e altri 16 per le biomasse. Ma l'Europa non è sola. Il Congresso americano si appresta a varare una legislazione analoga e il Giappone ha già messo in cantiere tagli del 30%. La Cina, primo inquinatore mondiale, sta facendo rapidi passi avanti sulla via delle fonti pulite e ormai è leader nella produzione di pannelli solari. Perfino la Corea del Sud, unico fra i Paesi in via di sviluppo, ha deciso un taglio delle emissioni del 4% entro il 2020. Su questa base funzionano diversi mercati di scambio dei crediti di carbonio, a partire da quello europeo. “Chi teme di trovarsi di fronte a una bolla può stare tranquillo”, spiega Peter Dickson di Fortis. “Il quadro legislativo internazionale è già a un livello avanzato di sviluppo, con meccanismi di remunerazione stabili e mercati trasparenti di scambio dei crediti di carbonio. Le tecnologie sono provate e sempre più efficienti. La crescita sui mercati globali è costante”. Il settore presenta caratteristiche anticicliche, come s'è visto nella continua crescita anche in questo periodo di vacche magre. E risponde a spinte di lungo periodo, che prescindono dagli esiti del vertice di Copenhagen: l'aumento della domanda energetica causato dalla crescita della popolazione mondiale, la necessità di emanciparsi da fornitori inaffidabili e dai prezzi volatili dell'energia, l'esigenza di migliorare la qualità dell'aria. “Attenzione, quindi, a non sottovalutarlo”, ammonisce Dickson. Chi continua a finanziare l'economia del carbonio, rischia prima o poi di rimanere con il cerino in mano.