I pericoli del counter-branding

Quando ha cominciato a diffondersi in tutto il mondo la moda di rubare dalle Mercedes la stella a tre punte per appendersela al collo come un medaglione, a Stuttgart c'è stato un attimo di disorientamento. Da un lato l'inattesa popolarità del logo lusingava gli uomini del marketing, dall'altra l'associazione con la piccola criminalità non ha proprio dato lustro al marchio. A un certo punto le richieste di rimpiazzare il famoso distintivo erano diventate talmente tante, che la casa tedesca ha dovuto mettere a disposizione un servizio automatico per la clientela. Ben di peggio è successo più di recente alla rivale Audi in Inghilterra: la scorsa estate la carcassa di una TT crivellata di proiettili con dentro il cadavere di un giovanissimo rapper è finita sulle prime pagine di tutti i giornali in occasione di un regolamento di conti tra bande rivali fuori da un concerto di Lisa Maffia dei So Solid Crew. Da allora il gruppo – i cui membri sono accusati di tentato omicidio, possesso di armi e commercio di droga – usa liberamente il logo Audi nel suo materiale promozionale. A Ingolstadt non si strappano i capelli, ma ci siamo vicini. Non è la prima volta, del resto, che un marchio automobilistico finisce associato ai gusti dei criminali: negli ultimi anni Novanta il "trifoglio" Mitsubishi circolava in tutte le discoteche stampato sulle pasticche di ecstasy. Le "mitsi" – molto ricercate per la loro fama di straordinaria purezza – generarono una tale ondata di popolarità per la marca di automobili che nessun ufficio marketing potrebbe mai sognare di costruire a tavolino. Ma l'associazione con la delinquenza per un brand può essere il bacio della morte. Soprattutto se l'aura noir si scontra frontalmente con i valori su cui è impostato il marchio. Nel caso di Audi, che ha lavorato anni per costruirsi un'immagine sportiva, moderna e sofisticata, la sparatoria di Turnmill potrebbe trasformarsi in un incidente di percorso non da poco, soprattutto nei suoi rapporti con la clientela britannica. "D'altro canto – dicono a Ingolstadt – sono situazioni su cui possiamo incidere ben poco e nessuno ci potrà certo accusare di complicità con le attività illegali di questa gente". Resta il fatto che spesso ha più effetto sull'immagine di un brand un episodio casuale come questo di tutte le campagne pubblicitarie del mondo. Molte delle marche prese di mira non hanno la minima idea dei motivi per cui sono state scelte: perché le subculture metropolitane tipo hip hop e i gruppi di musica rap si concentrino su questo o quel marchio per farne una bandiera è un mistero non ancora rispolto. Ma l'attenzione del marketing per questo tipo di fenomeni cresce in rapporto alla penetrazione sempre più massiccia delle mode di strada nella società. Ad esempio Allied Domecq (numero uno mondiale nella produzione di liquori) non ha disdegnato il brivido da ghetto metropolitano conferito dal disco "Pass the Courvoisier" del gruppo hip hop Busta Rhymes al venerabile cognac di Napoleone. E già partono i primi ammonimenti: "Attenzione a non farsi prendere dalla tentazione di incorporare le subculture metropolitane nell'immagine del proprio brand", diffida Sophie Spence, dell'agenzia Mother. "E' un passaggio ancora troppo pericoloso", conclude Spence. Se non altro perché le subculture tendono a costruire e distruggere i loro idoli a velocità supersonica, ma soprattutto perché finiscono per coinvolgerli in vicende non particolarmente entusiasmanti, come si è visto con Audi. Per restare nell'ambito delle pasticche di ecstasy, ad esempio, ora le "mitsi" sono completamente scomparse e gli esemplari più ricercati sono targati con l'aquila di Armani o con la coroncina di Rolex. Anche l'improvvisa popolarità fra gli hooligan inglesi del classico scozzese Burberry, a righe rosse e nere su sfondo beige, potrebbe durare lo spazio di un mattino, ma in questo caso è stata sicuramente la campagna di svecchiamento intrapresa dal marchio britannico per emanciparsi dalla sua clientela tradizionalista a scatenare l'interesse dei tifosi violenti. La scelta ardita di testimonial come Madonna, Kate Moss e David Beckham, che ha quintuplicato il fatturato dell'austera casa londinese e lanciato il mito dell'a.d. Rose Marie Bravo (ex-Saks Fifth Avenue), non implica necessariamente un aumento di popolarità nei bassifondi, ma spesso la trasformazione radicale di un marchio può degenerare e il ridimensionamento dei prezzi di molti accessori ha favorito la comparsa di camicie e berretti da baseball di Burberry sugli spalti più temuti degli stadi britannici. Un passaggio inverso è invece quello che sta compiendo Ben Sherman, marchio spesso associato con ambienti neonazisti, soprattutto per quanto riguarda la camiceria: le decise contromosse della casa di moda per distanziarsi dagli ambienti della destra violenta hanno avuto successo, ma le perdite sono state dolorose. "Sapevamo che il nostro brand era considerato di destra – spiega Andy Rigg, marketing manager di Ben Sherman – soprattutto in Francia, in Germania e in Italia. Per questo abbiamo deciso di uscire dai canali distributivi tipici di quegli ambienti, perdendo un bel po' di affari. Ma alla lunga è uno sforzo che paga". Eliminate anche le teste rasate e i toni aggressivi dalle campagne pubblicitarie, ora Ben Sherman è pronto per il pubblico più vasto. In definitiva, è facile farsi scippare sotto il naso l'immagine di un marchio senza motivi ben definiti, ma non è impossibile riacchiapparlo prima che degeneri e spesso il fenomeno rientra da solo abbastanza rapidamente, soprattutto se si tratta di un brand molto forte. Tutti ricordiamo come il tipico slogan Enjoy Coke sia stato immediatamente trasformato in Enjoy Cocaine e stampato su milioni di t-shirt. Da allora ad oggi Coca-Cola ha avuto parecchi grattacapi, ma non le sono certo derivati dal deragliamento di uno slogan che sembrava fatto apposta per essere preso in giro.

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