Negli Stati Uniti sono un prodotto su cinque, in Europa uno su quattro: ormai i marchi del distributore stanno vincendo la lunga maratona verso la conquista del portafoglio dei consumatori. Con tassi di crescita da far tremare le vene ai polsi dei marchi tradizionali e di tutta l'industria pubblicitaria, i generi di consumo (detti "private-label") prodotti direttamente dalle grandi catene di supermercati, che non hanno bisogno di marketing e quindi costano meno degli altri, corrono sempre più veloci sulle due sponde dell'Atlantico. Complice la crisi economica ma anche la loro qualità crescente, i marchi del distributore – un tempo considerati la Cenerentola dei supermercati – continuano ad acquisire quote di mercato importanti anche quando i consumi ristagnano. Secondo un'indagine Nielsen negli Stati Uniti sono cresciuti dell'8,6% negli ultimi due anni (4,3% nel 2002 contro l'1,7% dei marchi tradizionali), con un giro d'affari che ormai sfiora i 50 miliardi di dollari e supera il 20% del volume complessivo del commercio al dettaglio. In Europa, i Paesi più dinamici in questo settore sono la Spagna e la Germania: nella prima i private-label hanno conquistato nel 2002 una quota del 27% del mercato, con una crescita annuale di quasi tre punti percentuali; nella seconda hanno toccato il 33%, con un aumento di oltre due punti. Crescita robusta anche in Francia, in Olanda e in Italia (fanalino di coda d’Europa), dove le quote di mercato superano il 25%, il 21% e il 13%. Nel Regno Unito, dove i private-label ormai la fanno quasi da padroni, la quota è rimasta stabile ben oltre il 40%. Segue a ruota il Belgio, stabile al 37%. Ma la vera rivoluzione non sta tanto nelle crescenti quote di mercato di una categoria di prodotti che ancora un decennio fa veniva presa in considerazione soltanto dai consumatori in grandi ristrettezze economiche. E' soprattutto l'evoluzione interna, la sfida sulla qualità e sull’immagine che i private-label proiettano verso i consumatori a renderli un fenomeno del tutto nuovo. Tanto che anche i marchi tradizionali, perfino in un universo commerciale come quello americano dove godono di un potere quasi sovrannaturale, sono costretti a misurarsi con loro. "E' un errore pensare che i marchi dei distributori non siano veri marchi – ha detto qualche settimana fa il presidente e amministratore delegato di Procter & Gamble Alan Lafley in uno storico discorso ai suoi dipendenti – perché in molte categorie sono concorrenti ben più forti degli altri marchi tradizionali". Sono brand come Ol' Roy di Wal-Mart, il cibo per cani più venduto al mondo da quando ha recentemente sorpassato il venerando marchio Purina della Nestlé, o Kirkland, un marchio tuttofare (dai generi alimentari ai pannolini) della catena di grandi magazzini Costco, ormai diventato una leggenda sulla costa occidentale degli Stati Uniti. In California non è raro vedere gente che si accolla chilometri e chilometri in più per trovare un Costco dove comprarsi le noccioline Kirkland, molto migliori di tutte le altre marche, riempiendo poi – già che ci sono – il carrello anche di altri prodotti Kirkland. Lo stesso "Consumer Reports", la Bibbia dei consumatori americani, dà sempre più spesso voti migliori ai prodotti dei private-label che a quelli dei marchi tradizionali: ad esempio le patatine dei supermercati Kroger (che produce in proprio ben 4300 diversi generi alimentari in 41 fabbriche sparse per il Paese) l'hanno recentemente spuntata sulle Pringles. Anche lo sforzo per adeguare l'immagine dei private-label sta dando i suoi frutti: non più confezioni dimesse e senza nome, ma design attraente e sempre più sofisticato. Wal-Mart ha assunto un team di creativi solo per disegnare le etichette dei suoi marchi e spesso le sue confezioni sembrano più di lusso di quelle dei marchi più famosi (e costano di meno). L’effetto è sotto gli occhi di tutti: ormai il 75% dei consumatori americani ascrive ai private-label lo stesso valore dei marchi tradizionali e l’83% ne acquista regolarmente. Un segnale particolarmente positivo è che i marchi del distributore hanno i giovani dalla loro parte: in Europa, i loro sostenitori più affezionati stanno nella fascia fino ai 25 anni, cioè fra i consumatori di domani. I dettaglianti, naturalmente, sono entusiasti di questo trend. Sui private-label, infatti, riescono a spuntare margini molto superiori rispetto agli altri prodotti: secondo le stime più accreditate si arriva al 35% contro il 25% dei marchi tradizionali. E molte piccole catene di supermercati cavalcano la tigre coalizzandosi per creare private-label da condividere. La conseguenza più immediata è un processo di concentrazione tra i marchi tradizionali, in cui i brand meno forti, che soffrono di più dell’assalto, vengono abbandonati a se stessi o addirittura eliminati. Dal ’95 a oggi il colosso britannico-olandese Unilever, ad esempio, ha ridotto i suoi brand da 1600 a duecento. Procter & Gamble sta seguendo un itinerario analogo: tutti gli sforzi di marketing si concentrano sui marchi di primo piano e gli altri restano al palo. Ma puntare tutto su pochi cavalli vincenti non basta: per ripianare le perdite sui marchi di serie B, le regine dei consumi hanno bisogno di una strategia alternativa. E mentre fino a dieci anni fa produrre per i private-label era considerato dai marchi tradizionali un tabù invalicabile (un top manager della Gillette lo paragonò una volta a "vendere la propria anima"), oggi Kraft, Nestlé, Kimberly-Clark, Unilever e compagne cominciano ad attrezzarsi per fare proprio questo. Secondo fonti interne, Procter & Gamble ha silenziosamente avviato proficui rapporti con la grande distribuzione in Europa, per cui produce carta igienica e salviette che noi troviamo sugli scaffali dei supermercati come private-label. Per ora si tratta di volumi minimi, ma il valore simbolico della mossa è rilevante. Perfino Campbell Soup, l’icona pop degli anni Sessanta, sforna minestre per la grande distribuzione europea. Della serie: se non puoi batterli, unisciti a loro. In ultima analisi, la travolgente avanzata dei private-label si può ricondurre al trionfo della comunicazione diretta, che la grande distribuzione intrattiene con la propria clientela. Per far comperare alla casalinga di Voghera un prodotto targato Esselunga, non occorrono gli spot televisivi: basta metterlo bene sullo scaffale e appendere qualche cartello in giro per il supermercato. Se è vero, come riuslta da molteplici sondaggi, che tre quarti delle decisioni d’acquisto vengono prese nel negozio e non davanti alla tv, si capisce meglio perché gli sforzi del marketing si concentrino sempre più sul canale distributivo. Per i marchi tradizionali, insomma, è il danno e la beffa: non solo i distributori fanno loro concorrenza con i propri marchi, ma gestiscono anche la comunicazione per i loro.
Etichette: management