Edward Prescott

Prima regola: «Se l' Italia vuole risanare i suoi conti pubblici, deve tagliare le tasse». Seconda regola: «Il punto non è aumentare la bassissima produttività degli italiani, basta ricondurre alla luce il sommerso e raddoppierà da sola». Terza regola: «Per rimettere in moto la crescita, non bisogna spingere a colpi d' investimenti pubblici, basta mollare il freno, togliendo le barriere di protezione a certi settori». Edward Prescott non è un pazzo visionario, ma un Nobel per l' economia e il suo messaggio al nuovo governo italiano va preso sul serio. Dal forum Sas di Ginevra, dove ha parlato di efficienza della produzione attraverso l' uso della tecnologia, Prescott si rivolge a Romano Prodi sapendo di indirizzare le sue valutazioni a un collega prima ancora che a un politico.

Il nuovo governo s' insedierà con un' emergenza già in corso sul fronte dei conti pubblici: il deficit si avvia a sforare la soglia del 4% sul Pil, mentre in base agli accordi con Bruxelles non dovrebbe superare il 3,8%. E il rapporto debito-Pil è già ben superiore al 100%. Le sembriamo in condizione di tagliare le tasse?

«Non bisogna spaventarsi di un aumento momentaneo del disavanzo. In definitiva l' Italia è in buona compagnia: anche il Giappone è nelle stesse condizioni. La differenza è che adesso il Giappone cresce, mentre l' Italia no. Il vero problema dell' Italia è la crescita piatta, non il disavanzo».

Cos' è che blocca la crescita?

«Bisogna eliminare le rigidità e le barriere che imbrigliano l' efficienza produttiva: da un lato l' eccessiva fiscalità, dall' altro lato le protezioni di cui godono settori fatiscenti, solo per garantire l' occupazione a quei pochi privilegiati che ci lavorano. Bisogna ricordarsi che la protezione del posto di lavoro di qualcuno non avviene mai senza un costo e comunque sempre a discapito di qualcun altro».

Quindi?

«Primo: ridurre le aliquote fiscali. È stato ampiamente dimostrato da una serie di studi, compresi i miei, che la produttività è fortemente influenzata dalla fiscalità. Dalle statistiche dell' Ocse si deduce che gli americani nella fascia d' età 16-64 lavorano il 50% in più dei francesi. Valori analoghi risultano anche rispetto ai tedeschi e agli italiani. Per spiegare queste differenze spesso si citano fattori culturali o i sussidi alla disoccupazione, ma andando a verificare sulle serie storiche emerge chiaramente che l' unico motivo vero è il livello della tassazione. Nei primi anni Settanta, infatti, la situazione era capovolta. E anche le aliquote fiscali».

Nella pratica?

«In pratica, le tasse sul reddito rappresentano un chiaro incentivo a lavorare di meno. E anche se si tassano solo i più ricchi, non si fa altro che disincentivare la produttività. Spesso i cosiddetti ricchi sono solo famiglie in cui lavorano sia il padre che la madre. L' aumento della pressione fiscale su questo tipo di famiglie ha solo l' effetto di far restare la madre a casa. E questo non è un male solo per il reddito familiare, ma anche per le casse dello Stato, che vedranno le entrate fiscali calare invece che crescere».

Come si fa a spezzare questo circolo vizioso?

«È semplice: se gli europei fossero tassati come gli americani, avrebbero gli stessi livelli di produttività. E di crescita. È la quantità di lavoro disponibile, non dimentichiamolo, il fattore chiave per aumentare la crescita. Ricordo quando l' Europa riuscì a raggiungere gli Stati Uniti in termini di output e di produttività. È successo dall' inizio degli anni Sessanta fino a cavallo degli anni Ottanta. Poi il declino. La gente, sia in America che in Europa, sia in Cile che in Giappone, risponde in maniera analoga ad analoghi stimoli fiscali».

Anche in Italia?

«Per l' Italia questo discorso è ancora più valido, considerando la dimensione consistente del sommerso. Gli italiani non lavorano necessariamente meno degli americani, solo che una parte del loro lavoro non viene tassata. Se il governo riducesse le aliquote abbastanza da catturare anche una buona fetta di questa torta, facendola emergere, potrebbe aumentare le sue entrate fiscali del 25 per cento. E improvvisamente si scoprirebbe che gli italiani sono dei gran lavoratori. Tanto quanto gli americani».

Ma tagliare le tasse non basta.

«No, ci sono altre riforme molto importanti: lo Stato dovrebbe smettere di proteggere le rendite di posizione, di qualsiasi tipo. Dovrebbe eliminare le barriere che scoraggiano il libero uso della tecnologia per migliorare l' efficienza della produzione. Dovrebbe togliere le rigidezze normative che ingessano il mercato del lavoro proteggendo solo i lavoratori garantiti. Dovrebbe spingersi oltre sulla riforma delle pensioni, introducendo gradualmente un sistema a capitalizzazione ed eliminando i privilegi ancora accordati ad alcune categorie…».

E tutto questo in quattro anni?

«Non solo questo. C' è dell' altro: l' Europa deve assolutamente favorire il libero commercio internazionale, eliminando le barriere doganali contro i prodotti asiatici. Solo la libera competizione consente ai consumatori occidentali di accedere alle merci più a buon mercato e promuove una distribuzione efficiente della produzione mondiale, lasciando ai Paesi più industrializzati solo le industrie con maggiore valore aggiunto e agli altri quelle in cui è essenziale un basso costo della manodopera».

Ma questo significa autodistruggere interi settori della produzione industriale…

«Vero. Ma sono settori che non sopravvivrebbero comunque e resistere strenuamente alla loro distruzione significa danneggiarne altri, che invece sono i settori del futuro e andrebbero incentivati. Chi perde dall' abbandono di un sistema difficilmente si rassegna e chi guadagna difficilmente ha i mezzi per far valere le proprie ragioni. Ma la dittatura dello status quo imposta da alcuni gruppi al resto della società ci danneggia tutti».

Come si esce da questa dittatura?

«Eliminando gli steccati che impediscono ai nuovi competitor di entrare. Le barriere alla competizione arricchiscono le imprese esistenti, ma soffocano le nuove. Il potere economico "compra" il potere politico e rende il passaggio all' innovazione politicamente difficile, pur essendo economicamente conveniente. Nel Medio Evo, per esempio, come ricordano i libri di storia, le gilde usavano il proprio potere politico per indurre i governanti ad introdurre regolamentazioni che limitavano la competizione attraverso controlli dei prezzi, standard di produzione e un numero chiuso di agenti attivi sul mercato locale».

Come gli ordini professionali di oggi…

«Il risultato fu quello di tagliare il flusso di nuove idee, portando al declino i Paesi dove questo sistema è riuscito a prevalere. Tuttavia l' esperienza storica ci dice pure che non tutti i sistemi sono uguali e che non tutti i Paesi rimangono intrappolati in strategie e politiche perdenti. Dipende dall' indipendenza e dallo spessore dei politici che li governano».

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