Dalla periferia di Filadelfia, dove il Crozer-Chester Medical Center accoglie ogni giorno schiere di pazienti dai tre Stati confinanti (Pennsylvania, Delaware e New Jersey), alle colline di Gerusalemme il passo è breve: se mai vi capitasse di essere ricoverati nel gigantesco ospedale durante la notte con una sospetta appendicite o con qualche osso rotto, le vostre radiografie verrebbero esaminate dal dottor Jonathan Schlakman o da un suo collega del Media Medical Imaging di Gerusalemme, a seimila miglia di distanza. Per chi lavora su immagini o altre informazioni facilmente trasferibili in forma digitale, la distanza ormai non è più un problema. Al momento solo 35 serie di radiografie al giorno vengono trasmesse da Filadelfia a Gerusalemme, ma più cresce la paga dei radiologi americani e i turni notturni diventano un lusso per gli ospedali, più radiografie finiranno in Medio Oriente (dove un radiologo costa la metà e dove splende il sole quando è notte a Filadelfia) per decidere se è il caso di operare subito o no.
Per ora Schlakman e compagni sono solo una manciata, ma l'emorragia di posti di lavoro nei servizi – non più solo nel comparto manifatturiero – dall'Occidente verso i Paesi in via di sviluppo è stata il tormentone dell'estate nel mondo accademico americano e britannico. "Nel secolo scorso – spiega in un suo recente saggio Brad Delong, docente di Economia a Berkeley – chi lavorava la terra o in una fabbrica sapeva di essere in competizione con i lavoratori di continenti lontani; sapeva che le dinamiche del mercato globale possono far sparire il vantaggio di mantenere in Occidente la produzione, spazzando via il suo lavoro e il sostentamento della sua famiglia. Oggi si sta aprendo un nuovo capitolo: i cavi in fibra ottica, i satelliti e internet stanno assumendo il ruolo svolto nel secolo scorso dai grandi transatlantici, che hanno minimizzato il costo del trasporto delle merci. Tutti i compiti di back-office, di elaborazione dati, di servizio clienti, di programmazione informatica, tutte le mansioni tecniche che si basano su un supporto cartaceo ora si possono spostare verso continenti lontani esattamente come nel secolo scorso si è spostata una parte dei posti di lavoro agricoli o manifatturieri". Per Delong, acceso paladino della globalizzazione, in fondo non c'è niente di male, anzi: "Questa riallocazione di posti di lavoro finirà per diventare una straordinaria fonte di crescita per l'economia mondiale nelle prossime due generazioni". Ma non tutti sono d'accordo con lui. Quando in Occidente si comincia a parlare di dazi, di barriere o di protezionismi di vario genere, come quelli che nel secolo scorso hanno fatto la fortuna del magnate dell'acciaio Andrew Carnegie o degli Junker prussiani, vuol dire che la resistenza a questo trasferimento – complice la crisi di questi anni e la disoccupazione crescente nelle economie industrializzate – sta diventando sempre più forte.
La sensazione diffusa negli ambienti accademici, però, è che alzando adesso la bandiera del protezionismo si rischia di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati. L'esempio del radiologo israeliano, infatti, non è che una goccia nel mare dell'outsourcing occidentale verso il terzo mondo. Esempi come questo abbondano ormai in Medio Oriente, in India e in tutto il Sud Est asiatico, soprattutto dove l'inglese è considerata quasi come una seconda lingua madre. L'aeroporto Changi di Singapore, ad esempio, dall'anno scorso svolge tutta la manutenzione degli aerei di buona parte delle compagnie americane: la modesta retribuzione chiesta dagli ingegneri aeronautici dell'isola compensa abbondantemente il costo della trasvolata del Pacifico (circa 60mila dollari) per un aereo vuoto. Come i radiologi israeliani, anche gli architetti thailandesi o vietnamiti ricevono sempre più incarichi tecnici da studi dei Paesi industrializzati. In Tailandia, un team di 50 architetti lavora per 16 studi britannici, che hanno delegato ai colleghi asiatici tutti i disegni in 3D generati al computer. L'architetto vietnamita Trieu Nguyen, invece, dopo aver insegnato per anni all'università oggi lavora per Atlas Industries, una società di servizi per studi di architettura che ha sede a Ho Chi Minh City (Saigon), oltre che a Londra e a Manchester. I dipendenti di Atlas guadagnano in media 6000 dollari all'anno, una paga molto alta per un Paese dove il reddito medio pro capite è di 400 dollari, ma pur sempre bassissima rispetto ai colleghi occidentali.
Al centro di questo processo, naturalmente, c'è l'India, il Paese asiatico dove la cultura tecnica è più avanzata e dove l'inglese è ancora la lingua ufficiale. Ramesh Sharma, fondatore di Moving Pictures India, è uno degli esempi più citati: la sua azienda fornisce documentari, animazione ed effetti speciali a tutta l'industria cinematografica americana, con reciproca soddisfazione. Ma non c'è limite all'outsourcing occidentale verso il subcontinente indiano, ricco di un milione e mezzo di laureati perfettamente anglofoni. Tutte le grandi multinazionali, da General Electric a British Telecom, ormai hanno almeno un call-center in India. E a poco a poco cominciano a trasferirsi qui settori sempre più centrali nel business delle aziende occidentali: Reuters sta per aprire uno stabilimento a Delhi dove verranno preparati e analizzati tutti i dati finanziari destinati a comparire sugli schermi delle banche d'affari di tutto il mondo, minacciando così i posti di lavoro di una parte dello staff di oltre mille persone che ora svolge questo stesso compito negli Usa e nel Regno Unito. L'elemento chiave è che gli indiani forniscono un servizio di ottima qualità a un quarto del prezzo. Ajay Lavakare è un altro esempio paradigmatico: dopo un master in ingegneria a Stanford, Lavakare è stato uno dei pionieri indiani nell'analisi dei dati geografici, una nicchia in cui l'India è ormai diventata campione mondiale. In meno di un decennio la sua Rmsi si è gonfiata fino a ottocento dipendenti distribuiti su quattro sedi, due in India, una a Londra e una a Newark. Con la sua analisi geografica, Rmsi aiuta le assicurazioni a capire se i loro rischi sono troppo concentrati su determinate aree, fornisce sofisticate mappe agli eserciti di diversi Paesi e carte stradali computerizzate agli automobilisti. Perfino nei servizi sanitari la competenza degli indiani sta diventando famosa. L'Escorts Heart Institute di New Delhi installa sempre più bypass a pazienti arrivati in volo dall'Europa o dall'America: il costo – compreso il viaggio – non supera i settemila dollari e non ci sono liste d'attesa. L'anno scorso Naresh Trehan e il suo team hanno fatto più di quattromila bypass e il tasso di mortalità (0,8%) non è superiore a quello dei migliori ospedali occidentali.
La nuova frontiera dell'outsourcing attira anche imprenditori occidentali, come Joseph Siegelman e Randy Altschuler, due giovani americani laureati a Harvard che hanno fondato quattro anni fa a Chennai (l'antica Madras) una società di analisi finanziaria, Office Tiger, ormai considerata il braccio virtuale di Wall Street. Delle dodici principali banche d'affari, sei sono suoi clienti: lo staff è diviso in sei settori diversi, rigidamente separati, ognuno dei quali svolge ricerche finanziarie estremamente sofisticate per uno dei sei clienti. Dei mille dipendenti di Office Tiger, un'ottantina ha un dottorato, trecento hanno un master e gli altri sono tutti laureati. Ed è proprio questo il punto centrale della fuga verso Oriente dei lavori intellettuali: mentre una volta una laurea di un'università asiatica valeva poco o niente, ora la preparazione universitaria dei dipendenti orientali sta raggiungendo livelli paragonabili a quelli dei laureati occidentali. Questo significa che tutto il sistema educativo di alcuni Paesi in via di sviluppo si è mosso rapidamente per cercare di competere con gli atenei occidentali e in alcuni casi ci sta riuscendo.
Geoffrey Colvin, autore di diversi best-seller in materia, è stato il primo a mettere il dito sulla piaga: gli Stati Uniti, ex monopolisti dell'educazione superiore, stanno lentamente perdendo il loro primato. Una volta tutte le menti più brillanti dei Paesi in via di sviluppo aspiravano a studiare nelle università americane, da dove uscivano i migliori ingegneri, i migliori radiologi e i migliori analisti finanziari. Ma se ora le aziende scoprono che gli ingegneri, i radiologi e gli analisti finanziari educati in India o in Tailandia sono altrettanto bravi di quelli educati negli Usa, questo flusso finirà per prosciugarsi e uno dei pilastri fondanti della società americana, cioè l'attrazione magnetica nei confronti delle menti migliori di tutto il mondo, potrebbe vacillare. "Ecco perché è un errore – sostiene Colvin – credere che l'esodo di posti di lavoro intellettuali sia identico a quello già avvenuto nel settore agricolo e manifatturiero". Ma anche il suo grido d'allarme potrebbe arrivare troppo tardi.
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