Martha Stewart Living, la società che insegna alle casalinghe americane come arredare e decorare la casa, è la vittima più recente. Con la sua fondatrice messa alla gogna proprio in questi giorni a New York, in uno dei processi più spettacolari degli ultimi anni, l'impero mediatico nato dal nulla nel '91 ha perso circa metà del suo valore rispetto alla quotazione di partenza e l'azienda è finita in rosso. Martha Stewart, naturalmente, ha ceduto il timone ai suoi collaboratori. Ma non è chiaro se un'azienda così strettamente legata alla personalità del suo amministratore delegato sarà in grado di rimettersi dopo l'accusa infamante di insider trading che l'ha disarcionata.
Nell'ondata di scandali societari seguiti allo scoppio della bolla borsistica e all'"esuberanza irrazionale" degli ultimi anni Novanta, Martha Stewart Living non è stata certamente l'unica società, né la più importante, a soffrire del crollo dei suoi vertici e delle loro strategie spericolate. Dopo i disastri di Enron, GlobalCrossing, WorldCom o Tyco nella prima fase, oggi è il turno di HealthSouth, Hollinger, Parmalat, Ahold, Skandia. Per non parlare delle banche o delle società di revisione contabile, devastate dalla bufera che ha travolto i loro capi. E non sono solo le frodi ad aver messo schiere di amministratori delegati fuori combattimento: da Aol a Bertelsmann, spesso le strategie troppo ardite che sono costate la testa a più d'un capo azienda vengono oggi disfatte in fretta e furia dai suoi successori. Un bilancio completo della distruzione di valore avvenuta in questi anni non è ancora stato stilato, ma resta la curiosità di andare a vedere i danni causati nelle singole aziende. Citizen Works, un'organizzazione americana impegnata nella difesa dei consumatori, si è presa la briga di esaminare i casi più eclatanti.
Andersen è l'unico caso di estinzione completa fra i marchi colpiti dalla pubblica infamia. L'amministratore delegato dello scandalo, Joseph Berardino, si è dimesso nel marzo 2002 dietro sollecitazione di un comitato di saggi guidato da Paul Volcker, chiamato a salvare l'azienda. Ma non è servito a nulla: con la condanna della sua controllata americana Arthur Andersen, in primissima linea nell'affare Enron, il colosso delle revisioni contabili (con un giro d'affari da quasi 10 miliardi di dollari) si è trovato abbandonato nel giro di poche settimane da tutti i suoi clienti e costretto a chiudere in breve tempo l'intero network di 390 uffici in 85 Paesi del mondo.
La fusione fra Time Warner e Aol, nel 2001, è stata il canto del cigno della rivoluzione digitale che ha sostenuto la straordinaria crescita economica americana negli anni Novanta. Oggi, tutti i manager che hanno contribuito al matrimonio fra il numero uno mondiale dei media e il numero uno di Internet hanno perso il posto: il presidente Steve Case (fondatore di Aol) si è dimesso l'anno scorso, poco dopo l'abbandono di Ted Turner (fondatore della Cnn), e l'amministratore delegato Jerry Levin (ex-capo di Time Warner) aveva lasciato la nave già nel 2002, non appena il fallimento della storica operazione era diventato evidente. Nel 2002, Aol TimeWarner ha messo a segno un gigantesco buco da 98,7 miliardi di dollari, la più spettacolare perdita della storia americana. E sui risultati dell'anno precedente pesa un'indagine della Sec, che li ha scoperti gonfiati per abbellire i connotati della maxi-fusione. Nel 2003, la due società sono state separate (anche nel nome) e Aol, che era entrata nelle nozze da padrona, è diventata una controllata di Time Warner. Nello stesso anno il primo Internet provider del mondo ha perso oltre due milioni di abbonati, attratti dai rivali più economici. Ma anche le divisioni "old economy" del gigante dei media non se la passano benissimo: il nuovo presidente e amministratore delegato, Dick Parsons, ha definito il 2003 un "anno di riassetto", dedicato più alla riduzione dei debiti che alla crescita. La sua ultima mossa, infatti, è stata la vendita di Warner Music a Edgar Bronfman, ex capo della Seagram, che sarà perfezionata nei prossimi giorni.
Lo scandalo Ahold ha spazzato via nel giro di poche settimane il 63% del valore di Borsa del colosso olandese della grande distribuzione, che oggi capitalizza poco più di tre miliardi di dollari. In seguito alle irregolarità nei conti della sua affiliata americana, l'amministratore delegato Cees van der Hoeven e il direttore finanziario Michiel Meurs si sono dimessi l'anno scorso, seguiti poche settimane fa dal presidente Henny de Ruiter. Nel 2002 Ahold ha messo a segno la prima perdita della sua storia ultracentenaria: un buco da 1,27 miliardi di dollari.
Gli altri casi europei più eclatanti di amministratori delegati caduti in disgrazia sono quelli di Vivendi Universal e di Bertelsmann, dove all'origine della caduta non ci sono state frodi, ma banali manie di grandezza su cui gli azionisti hanno preferito tirare il freno. Anche qui, i successori si sono affrettati a disfare ciò che i due visionari Jean-Marie Messier e Thomas Middelhoff avevano costruito durante il loro mandato, accumulando montagne di debiti. In Bertelsmann, Gunter Thielen ha ceduto tutte le quote comprate dal suo predecessore Middelhoff in diverse Internet companies e rallentato i piani di quotazione in Borsa. In Vivendi, dopo la cacciata di Messier nel 2002 il suo successore Jean-René Fourtou ha venduto Vivendi Universal Publishing a Lagardère e sta cedendo gli studios Universal al network televisivo di General Electric, Nbc. Malgrado ciò, nel 2002 la società è andata in rosso di 25 miliardi di dollari, un passivo senza precedenti in tutta la storia francese.
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