Gli antichi greci ci insegnano che l'umanità deve la capacità di coltivare i campi alla generosità di una dea. I semi di grano donati da Demetra al suo sacerdote, perché li distribuisse sorvolando il pianeta in lungo e in largo sul suo cocchio alato, hanno rappresentato per millenni il simbolo stesso della civiltà. Ma da allora ad oggi, le cose sono molto cambiate. Le tecniche agricole sviluppate dalla civiltà neolitica – in realtà ben prima e ben più a Est dell'Olimpo, nella Mezzaluna Fertile mediorientale oltre diecimila anni fa – si sono trasformate in una delle principali fonti d'inquinamento del pianeta. La benedizione della dea ha consentito all'umanità di moltiplicarsi e di colonizzare tutte le terre emerse, ma in questo processo ha causato danni colossali all'ambiente in cui viviamo. La deforestazione e il degrado del suolo sono andati avanti per millenni. L'avvento, nella prima metà del secolo scorso, dell'agricoltura meccanizzata e delle monoculture, per far fronte all'impennata dei fabbisogni alimentari mondiali, ha raddoppiato l'approvvigionamento globale di grano, mais e riso, ma ha nettamente aggravato i danni ambientali, portando alla perdita di biodiversità, al crescente consumo di combustibili fossili, all'uso sempre più spinto di pesticidi, diserbanti e fertilizzanti chimici. Il livello di tossicità dell'industria agricola continua ad aumentare, man mano che le erbe infestanti e i parassiti diventano resistenti ai veleni. Queste dosi sempre più micidiali inondano l'ambiente a ogni acquazzone, degradando il suolo, "bruciato" dai fertilizzanti. Benché i pesticidi più pericolosi, tossici e a volte cancerogeni della prima metà del secolo scorso, siano stati pressoché eliminati dall'uso agricolo (ma il Ddt continua a essere usato nei Paesi in via di sviluppo), i loro effetti non sono stati del tutto rimossi e lo scolo di fertilizzanti, pesticidi e diserbanti resta la principale fonte di inquinamento delle acque. Ora il sistema si scontra con i suoi limiti: le terre sfuttabili a fini agricoli sono sostanzialmente esaurite e la popolazione mondiale continua a crescere. La prima crisi, dovuta all'aumento repentino dei prezzi dei cereali, è avvenuta l'anno scorso, con una serie di rivolte del pane in tutto il Sud del mondo. Se la curva demografica globale ci porterà, come dicono le previsioni, a 9 miliardi di individui entro il 2050, per soddisfare la fame dell'umanità dovremmo aggiungere alle superfici attualmente coltivate un'estensione equivalente a tutto il territorio del Brasile. Ma questa terra arabile non esiste. Di conseguenza, gli esperti sono concordi nel sostenere che da qui ad allora l'agricoltura dovrà cambiare radicalmente faccia. Su cosa si baserà la nuova rivoluzione verde? La via che porta all'agricoltura sostenibile passa inevitabilmente per l'economia della conoscenza. Da un lato la conoscenza genetica delle piante consentirà di introdurre delle modifiche per renderle naturalmente resistenti ai parassiti, che abbattono di un terzo la produttività agricola del mondo, malgrado l'utilizzo diffuso di pesticidi. Dall'altro lato le conoscenze tecniche sull'energia verde, sulla desalinizzazione e sull'irrigazione “on demand” potranno ridurre la dipendenza dell'agricoltura dai combustibili fossili e gli enormi sprechi di acqua, consentendo anche di far fiorire il deserto, com'è già avvenuto in Israele. Le conoscenze urbanistiche, infine, ci spingono sempre di più a concentrare gli insediamenti per limitare l'eccessiva dispersione umana sul territorio, con il suo relativo impatto ambientale, e questa tendenza coinvolge anche la produzione alimentare. Basta guardare come si distribuisce la popolazione mondiale per capire che l'agricoltura urbana è il nostro futuro. All'inizio dell'800 il 90% degli americani lavorava la terra. All'inizio del '900 era il 40% e oggi non arriva al 4%. Lo stesso trend si ripropone in tutti i Paesi industrializzati. Quest'anno, per la prima volta nella storia dell'umanità, oltre la metà della popolazione mondiale risulta concentrata nelle città. E le previsioni dicono che nel 2050 gli agglomerati urbani ospiteranno l'80% dell'umanità. Per alimentare tutta questa gente, quale sistema migliore di costruire in loco le fattorie dove cresceranno le piante e gli animali destinati a sfamarli? Con 170 grattacieli di 30 piani, a pianta quadrata di due ettari (l'equivalente di un isolato a Manhattan), Dickson Despommier, professore alla Columbia University, assicura di essere in grado di sfamare tutta New York. Lotti vacanti o inutilizzati di questa dimensione in città ce ne sono 1.200: lui li ha contati. Con le tecniche di coltivazione idroponica, l'illuminazione a Led e la somministrazione controllata dell'esatta quantità di umidità e nutrienti necessari, le fattorie verticali di Despommier potrebbero produrre raccolti a ciclo continuo tutto l'anno, 20 volte di più di un appezzamento di terreno paragonabile. Potrebbero riciclare l'acqua che la città butta via, filtrandola e rimettendola in circolazione. Potrebbero produrre con il sole, il vento e la biomassa di scarto tutta l'energia necessaria per far funzionare ogni fattoria a impatto zero. Si tratta solo di decidere chi riuscirà a conquistare quell'ufficio d'angolo al trentesimo piano, esposto a Sud, con vista sull'oceano: i pomodori o le fragole?
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