Calpers, il fondo pensionistico dei dipendenti pubblici californiani, ha chiesto recentemente alle società in cui investe di dettagliare nei propri bilanci i rischi derivanti dalla scarsità di acqua cui sono esposte. Anne Stausboll, numero uno del potente fondo californiano, le ha invitate a misurare il proprio water footprint, così come per molte di loro è diventato ormai normale misurare il carbon footprint. E non è la prima. Un gruppo di investitori istituzionali, guidato dall'americana Ceres, i cui soci gestiscono oltre 10mila miliardi di dollari, si lamenta in un report del fatto che molte società, dalle compagnie petrolifere ai produttori di abbigliamento o di computer, non sono abbastanza trasparenti nel riferire la propria dipendenza dalle materie prime, i cui costi potrebbero essere influenzati dalla crescente scarsità di acqua dovuta al riscaldamento del clima. Nel report si citano gli esempi di Dell o Hewlett-Packard, che trascurano nei propri bilanci l'esposizione a questo rischio, malgrado il pesante consumo di acqua nella produzione di semiconduttori. Nel settore dell'abbigliamento, il report sostiene che nessuna società valuta con precisione il cospicuo utilizzo dell'irrigazione nella coltivazione del cotone. Anche per le compagnie petrolifere il consumo di acqua sta diventando sempre più centrale e costoso, da quando hanno cominciato a sfruttare i giacimenti canadesi di sabbie bituminose, ma non se ne trova traccia nei bilanci. Perfino in una recente analisi di JP Morgan si lamenta "la difficoltà di stimare questo tipo di rischi, a causa delle scarse informazioni sulle condizioni di fornitura e delle inadeguate comunicazioni fornite dalle società". La richiesta che viene dal basso non parte a caso: per gestire il proprio business in maniera sostenibile bisogna essere prima di tutto consapevoli delle materie prime da cui si è dipendenti. L'acqua in genere si dà per scontata, ma è un errore che alla lunga potrebbe dimostrarsi gravissimo.
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