Il caro-petrolio è la nuova Grecia? Con il greggio che sfiora i 130 dollari al barile, si fa strada fra gli operatori la grande paura di quota 150, lo stesso livello raggiunto nel luglio 2008, che contribuì a scatenare la crisi da cui non siamo ancora usciti. Il presidente americano Barack Obama sa che il prezzo al consumo della benzina, ormai arrivato a ridosso della soglia psicologica dei 4 dollari al gallone, potrebbe essere determinante per far deragliare la già fragile ripresa economica e quindi la sua rielezione. Così ha colto l’occasione di una visita negli Usa del premier britannico David Cameron per sondare il terreno di un possibile rilascio delle riserve petrolifere strategiche. "Non è stato raggiunto alcun accordo", ha detto Obama, ma "continueremo a lavorare assieme per affrontare i temi della sicurezza energetica e del prezzo del petrolio". Il direttore dell'Agenzia Internazionale dell'Energia, Maria van der Hoeven, ha smentito le voci di discussioni interne, precisando però che "Paesi come gli Stati Uniti hanno le loro riserve strategiche e possono usarle dopo aver consultato l'Aie". Le indiscrezioni di fonte britannica riportate dalla Reuters, secondo cui il rilascio di riserve strategiche dovrebbe essere definito nei dettagli entro l'estate, non hanno ricevuto smentite abbastanza decise da cancellare l'ipotesi dall'orizzonte.
Il problema è capire se la tendenza rialzista, che si è manifestata nel primo trimestre del 2012, continuerà. In questo caso, la ripresa economica nel mondo sviluppato rischia di arenarsi rapidamente e l'inflazione potrebbe tornare a mordere i mercati emergenti, spiega un recente studio di Hsbc Global Research, esattamente come nel 2008. "Che ci piaccia o no, l'economia mondiale resta dipendente dal petrolio e quindi vulnerabile ai suoi movimenti di prezzo", commenta Stephen King, capo economista del colosso bancario. "Per i mercati emergenti il problema immediato è l'inflazione, una minaccia che combattono con una stretta monetaria sempre più aggressiva. Il risultato è un rallentamento della crescita, soprattutto in Cina". In Occidente, "non c'è alcuna risposta significativa sui salari, quindi il potere d'acquisto si contrae e fa crollare la domanda", precisa King. Il rally petrolifero attuale, partito da quota 100 all'inizio dell'anno, è stato spinto soprattutto dalle crescenti tensioni attorno all'Iran, che prima ha minacciato di bloccare le esportazioni e il canale di Suez, poi ha visto l'affermazione dei conservatori alle elezioni e nel frattempo prosegue nel suo programma nucleare. Fuori dall'Opec, la Russia, rafforzata dalla rielezione del presidente Putin, è un altro elemento di sostegno al petrolio, perché Mosca ha tutto l'interesse a mantenere alte le quotazioni del greggio e a incamerare valuta estera pregiata. Ma fin dove potrà arrivare il rally? Gli economisti, nel caso di un peggioramento della crisi iraniana, vedono a portata di mano quota 150 dollari. "La recente impennata delle quotazioni va al di là del problema iraniano e riflette anche il tentativo dei governi occidentali di riaccendere la ripresa, inondando il mercato di liquidità", fa notare King. Andando avanti a forza di quantitative easing, si rischia di arrivare a 200 dollari al barile, secondo Hsbc, in particolare se la parola dovesse passare alle armi, per esempio nel caso di un bombardamento preventivo degli israeliani sulle postazioni atomiche iraniane. Merrill Lynch e Goldman Sachs condividono quest'analisi.
Per effetto delle sanzioni, secondo l'Aie, le esportazioni di greggio dall'Iran, già oggi in calo, potrebbero finire col dimezzarsi: dagli attuali 2 milioni di barili al giorno (contro i 2,6 di novembre) a 1-1,2 milioni. Resta la speranza del rilascio delle scorte americane. In generale Washington ha sempre preferito coordinarsi con gli altri membri dell'Aie, compreso l'anno scorso, quando riuscì a promuovere il rilascio di 60 milioni di barili, in risposta all'emergenza libica. Nulla vieta, tuttavia, che agisca per proprio conto. Anche perché in questo momento le sue scorte superano di gran lunga il livello minimo imposto dagli accordi internazionali: l'Aie prescrive che ogni Paese dell'Ocse conservi riserve pari a 90 giorni di importazioni. Con 696 milioni di barili, gli Usa ne hanno per 173 giorni, calcola l'economista Philip Verlager, grazie al calo della domanda e alle minori necessità di importazione, dovute all'estrazione di petrolio non convenzionale. Washington, suggerisce l'economista in uno studio, ha circa 280 milioni di barili di troppo, che potrebbe offire agli attuali clienti dell'Iran, con effetti benefici sia dal punto di vista politico che sui prezzi del greggio.