Solo i chimici potranno salvarci dalla chimica, inventando nuovi modi di produrre e di riciclare, una nuova gamma di materiali sostenibili e idee nuove per ridurre l’impatto ambientale del settore. E ci provano, di buona lena. Fra i colossi delle provette, non c’è n’è uno che non si occupi sempre più intensamente di “chimica verde”.
Da Basf a Dow Chemical, da Bayer a Solvay, passando per Versalis, la più grande della italiane, sono tutti impegnati su questo fronte, che sta diventando il principale driver di crescita del settore. Le occasioni non si contano. Dalla ricerca di materiali non tossici e riciclabili alle plastiche biodegradabili, dalle soluzioni verdi per l’automotive, con nuovi tipi di batterie adatte alla propulsione elettrica, ai prodotti per l’efficienza energetica: non c’è campo dello sviluppo umano che non abbia bisogno della chimica per riconvertirsi a una vita più naturale e al rispetto dell’ambiente. In questo contesto, anche il prezzo salato del petrolio gioca un ruolo fondamentale: per la chimica europea, quasi completamente dipendente dall’oro nero degli sceicchi, è diventato essenziale emanciparsi da una pericolosa dipendenza, che danneggia la sua competitività. Ormai la petrolchimica conviene solo ai Paesi arabi ed è quindi naturale che la ricerca del mondo industrializzato si sia orientata a fare chimica senza petrolio.
Ma tra i pionieri di questa riconversione due aziende italiane, Mossi & Ghisolfi e Novamont, sono decisamente all’avanguardia. Guido Ghisolfi, patron del numero due italiano della chimica (dopo Versalis), ha costruito in Piemonte, a Crescentino, il più grande impianto al mondo di bioetanolo di seconda generazione, operativo dall’ottobre scorso. Il secondo, che sfrutta la tecnologia made in Italy per ottenere bioetanolo dagli scarti agricoli senza fare concorrenza alle colture alimentari, è operativo in Brasile da qualche settimana, in mezzo alle sterminate piantagioni di canna da zucchero dell’Alagoas. Segue una lunga lista di progetti. Per ora la sua BetaRenewables è l’unica, sul mercato globale, capace di sintetizzare bioetanolo cellulosico per una produzione di massa, battendo colossi come Shell, Dupont o Abengoa. Chi vuole fare etanolo dagli scarti agricoli deve bussare alla sua porta, per cui Ghisolfi sta chiudendo contratti in Asia e in America, con aziende che vogliono utilizzare la sua tecnologia. Un bel risultato, costato 250 milioni di euro e sei anni di lavoro per ben 250 ricercatori, riuniti nel laboratorio di Tortona, che in questo periodo ha assorbito metà di tutti i laureati in chimica del Nord Italia.
Novamont, invece, pioniera delle bioplastiche fin dagli anni Novanta con il suo Mater-Bi, un materiale a base di amido di mais, grano e patate che può sostituire il polietilene, ha appena allargato il suo portafoglio con l’avvio del primo impianto industriale per la produzione da fonte rinnovabile di butandiolo, una componente fondamentale di molti prodotti, dai tessuti elasticizzati alle scocche dei telefoni cellulari. Catia Bastioli, capo azienda di Novamont e ora in predicato alla presidenza di Terna, ha acquisito il sito industriale ex BioItalia di Adria, dove partirà entro quest’anno Mater-Biotech, una piattaforma biotecnologica per sperimentare la produzione di questo intermedio chimico sinora ottenuto solo da fonti fossili, scarsamente disponibile rispetto alla domanda, che sarà utilizzato per integrare la sua gamma di bioplastiche. Il valore complessivo del mercato del butandiolo nel mondo è stimato intorno a 3,5 miliardi di euro. In parallelo, è partita la joint-venture sarda di Novamont con Versalis del gruppo Eni, Matrìca, per la riconversione alla chimica verde dello stabilimento di Porto Torres, con la costruzione di una bioraffineria da 120mila tonnellate annue e un centro ricerche integrato. I primi impianti entreranno in funzione quest’anno e la riconversione sarà completata entro il 2016.
Basf si è mossa invece sulla strada dell’efficienza energetica, applicando le sue ricerche in materia di isolanti a un caseggiato degli anni Cinquanta nei pressi della sua sede centrale a Ludwigshafen, dove ha lanciato la cosiddetta “casa da tre litri”, intesi come tre litri di gasolio da riscaldamento per ogni metro quadro di abitazione, contro una media di 25 litri per soddisfare il fabbisogno termico a quella latitudine (Ludwigshafen è di fronte a Magonza, sulla sponda opposta del Reno). Si è arrivati a questo risultato strabiliante applicando alla ristrutturazione una nuova schiuma isolante, il Neopor, contenente grafite, prodotto appunto da Basf. Ma questo è solo l’inizio. Ora Basf è entrata, con una divisione dedicata, nel business degli elettroliti per le batterie agli ioni di litio, destinato a crescere molto con la diffusione dell’auto elettrica. In questo campo ha già una forte presenza il gruppo belga Solvay, sia nelle celle a combustibile che nelle batterie al litio di ultima generazione.
Bayer, l’altro gigante renano, si è profilato invece nella chimica verde concentrandosi sulle termoplastiche per automotive, un settore dove ormai si usa più plastica che metallo, con notevoli vantaggi sul peso del veicolo e quindi sui consumi di carburante. Già oggi, il 50% di un’auto è fatto di plastica, ma incide solo per il 20% sul peso complessivo. In questo settore la sicurezza è al primo posto, quindi si usano poco i materiali riciclati. Bayer invece ha concepito una termoplastica completamente riciclata, che raggiunge i livelli di performance del Makroblend, uno dei polimeri più usati nell’automotive.