La sfida è garantire all’umanità la sicurezza alimentare, senza avvelenare il pianeta. Non sarà facile, perché le risorse cominciano a scarseggiare: già oggi il pessimo raccolto delle nocciole turche mette in difficoltà la Nutella e la siccità in California fa impennare il prezzo delle mandorle o delle arachidi. Ma in prospettiva anche il miele e lo sciroppo d’acero potrebbero diventare prodotti di lusso a causa dei cambiamenti climatici, come la cioccolata o il caffè, che secondo vari studi sono in grave pericolo per colpa delle temperature in aumento in Africa, da dove proviene metà del cacao consumato al mondo e la migliore qualità di Arabica.
Basta andare nei rispettivi cluster a Expo2015 per rendersi conto dei problemi affrontati quotidianamente dai coltivatori, in Africa e in America Latina, per instaurare buone pratiche agricole. Perfino i vignaioli di Francia cominciano a sentire i primi segni di cambiamento, ad esempio un aumento nel contenuto di zuccheri e un calo nell’acidità dell’uva, oltre a un anticipo di un paio di settimane per la stagione della vendemmia. Per non parlare delle rivolte del pane, che sempre più spesso sconvolgono le aree più povere del mondo, flagellate dai pessimi raccolti: la “rivolta della tortilla” nel 2007 in Messico ha scosso il governo di Felipe Calderòn e nel 2011 la primavera araba è stata innescata dalle rivolte del pane in Tunisia e Algeria, seguite da altri episodi occasionali in Mozambico, Argentina, Pakistan, causati dall’impennata dei prezzi dei cereali.
L’agricoltura, dunque, è anche politica. La prima “green revolution”, avviata negli anni Sessanta dal Nobel Norman Borlaug a partire dall’India e dal Brasile, ha salvato migliaia di vite umane, modernizzando l’agricoltura per far fronte all’impennata dei fabbisogni alimentari mondiali. Introducendo le tecniche della coltivazione meccanizzata e delle monoculture, Borlaug ha raddoppiato l’approvvigionamento globale di grano, mais e riso, ma ha nettamente aggravato i danni ambientali sul territorio, portando alla perdita di biodiversità, al crescente consumo di combustibili fossili, all’uso sempre più spinto di pesticidi, diserbanti e fertilizzanti chimici.
Ora il sistema si scontra con i propri limiti: le terre sfuttabili a fini agricoli si stanno esaurendo e la popolazione mondiale continua a crescere. E’ arrivato il momento di una nuova rivoluzione verde, che punti sulla qualità delle coltivazioni per aumentare le rese, non sulla quantità di territorio dedicato all’agricoltura. Stavolta ci vuole più rispetto per la natura e per l’ambiente, bisogna ascoltare i bisogni delle piante per ottenere raccolti più abbondanti con metodi naturali, grazie alla cura della salute del terreno, oggi “bruciato” dai fertilizzanti e depauperato di vita da pesticidi e diserbanti.
Le prime a sentire il fiato sul collo sono proprio le aziende del Big Food, in passato coinvolte nelle pratiche più controverse dell’agricoltura senza scrupoli e oggi all’avanguardia delle buone pratiche, per cercare di scongiurare i pericoli che minacciano direttamente il loro business. Gli esempi si moltiplicano. Da Nespresso, che collabora con Rainforest Alliance e Fairtrade International, per mettere nelle sue capsule solo caffè che provenga da coltivazioni che rispettano altissimi parametri di sostenibilità, a Unilever, che assicura la tracciabilità di tutto il suo olio di palma per non incorrere nelle sanzioni contro i Paesi che praticano la deforestazione selvaggia per soppiantare le foreste con le coltivazioni intensive di palme da olio. Unilever aderisce, insieme a Starbucks, Kellogg’s, General Mills e Mars, al Business for Innovative Climate & Energy Policy, un’iniziativa che ha come principale obiettivo l’opera di lobbying per indurre i governi a varare legislazioni più stringenti in materia di clima e di emissioni.
Una situazione analoga a quella dell’olio di palma interessa la coltivazione della canna da zucchero, una materia prima su cui la pressione della domanda crescente è enorme: si calcola che da qui al 2020 la domanda globale di zucchero crescerà del 25% e le coltivazioni intensive stanno distruggendo ampie aree di foresta tropicale. Oltre la metà della produzione mondiale di zucchero finisce nelle catene di montaggio dell’industria alimentare, in primis quelle che sfornano soft drinks. Da qui l’impegno di colossi come Coca-Cola (primo cliente mondiale dell’industria dello zucchero) e PepsiCo per smarcarsi da questo trend, rendendo pubblici i propri fornitori ed escludendo i Paesi dove dominano le pratiche di deforestazione selvaggia.
La via che porta all’agricoltura sostenibile passa inevitabilmente per l’economia della conoscenza. La conoscenza delle tecniche di coltivazione naturale è sempre più diffusa: dopo trent’anni di agricoltura biologica, ormai stanno diventando accessibili a tutte le latitudini e a tutte le tasche. Ma ci vuole una spinta dal basso per rendere le buone pratiche uno standard irrinunciabile nella competizione globale.