Si fa presto a parlare di economia circolare nell’abbigliamento. Dopo anni di fast fashion e di vestiti che si disfano con tre lavaggi, è difficile tornare all’idea di un guardaroba di lunga durata, trattato con la stessa attenzione applicata ai capi più amati dalle nostre nonne, che sfidavano arditamente le leggi della trasparenza. Superare il modello di sfruttamento lineare delle risorse, basato sulla logica sempre più insostenibile di estrarre, confezionare, consumare e buttare, può sembrare un obiettivo irraggiungibile. Ma forse non è poi così difficile. La mente umana, a dispetto delle lusinghe delle catene di negozi di abbigliamento usa e getta, resta ancorata ai vestiti del cuore più di quanto si creda.
In base alle ricerche di Procter & Gamble, si tende ad usare solo il 20% del proprio guardaroba, per l’80% del tempo. Il resto viene lasciato tristemente appeso in un armadio, forse solo perché i colori che ci piacevano sono sbiaditi o i pantaloni tanto amati si sono ristretti lavandoli. Basta un lieve difetto – come un polsino un po’ liso o un colore sbiadito – e il capo d’abbigliamento comprato con entusiasmo viene improvvisamente relegato in fondo al guardaroba, in attesa di essere espulso. Ma l’84% delle donne sarebbe felice di poterlo recuperare e indossare ancora per qualche anno.
“Il legame fra le esperienze sensoriali e le scelte dei vestiti da mettersi addosso, quando ci troviamo davanti al nostro guardaroba, è molto potente”, spiega Lawrence Rosenblum, docente di psicologia cognitiva all’università della California, che ha messo i suoi studi a disposizione del centro ricerche P&G di Bruxelles, dove da oltre cinquant’anni si va a caccia del pulito perfetto, elaborando detersivi e ammorbidenti come Dash, Ariel o Lenor. Rosenblum ha dimostrato come i sensi s’influenzino sempre a vicenda, in modi di cui non siamo quasi mai consapevoli, e quanto sia rilevante il loro impatto sulle nostre scelte. “Questa miriade di percenzioni incrociate fra vista, tatto, udito, olfatto e gusto è determinante nella relazione con il nostro modo di vestire e con quello che alla fine decideremo di metterci addosso per uscire di casa la mattina”, precisa Rosenblum.
Sono queste percezioni che ci portano prima o poi a smettere di usare certi vestiti, perché hanno perso le proprietà sensoriali che ci avevano attratto in origine. Se la specificità del loro aspetto e le sensazioni che ci trasmettevano all’inizio toccandoli non sono più le stesse, quei capi finiscono rapidamente nel dimenticatoio.
E’ proprio su queste percezioni che P&G si concentra nei suoi laboratori, investendo tutti gli anni 2 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo, nel tentativo di trovare modi sempre nuovi per preservare il più possibile l’aspetto dei capi d’abbigliamento sottoposti al lavaggio. “Il risultato più rilevante di questi sforzi sta nel fatto che i vestiti si possono lavare a temperature sempre più basse”, fa notare Regis d’Hardemare, responsabile della ricerca e sviluppo per l’area europea, che indica i 30 gradi come la temperatura ideale, ormai, per tutti i vestiti da lavare in lavatrice, sia bianchi che colorati. “Grazie ai nostri studi e agli enzimi particolari che abbiamo sviluppato, la temperatura media del bucato è scesa rapidamente negli ultimi vent’anni, con grandi vantaggi sia per i vestiti che per l’ambiente”, precisa d’Hardemare.
Il problema è che la gente non se n’è accorta e continua a fare il bucato a temperature esagerate e inutili. Ma intanto nei laboratori di P&G si spinge sempre più in là l’asticella del pulito perfetto e sostenibile, con una batteria di 200 lavatrici di tutte le marche e provenienze, che lavano gli stessi panni 500 volte alla settimana, per poi lasciarli asciugare in camere speciali, dove si simulano i diversi climi del mondo. “In questo modo possiamo riprodurre il bucato in diverse parti del mondo e adattare al meglio i nostri prodotti alle diverse condizioni”, spiega Monden Kristl, principal researcher di P&G. Le formule dei vari detersivi vengono continuamente aggiustate in base alle analisi del centro, per pulire a fondo con un impatto sempre più ridotto.
L’obiettivo ultimo è di farci portare a lungo i nostri capi d’abbigliamento più amati. Niente più fast fashion, ma slow fashion.