Ci muoviamo verso un’economia a bassa intensità di carbonio. “E’ una rivoluzione irreversibile, che non si può fermare. Vi conviene salire sul carro finché siete in tempo”. Christiana Figueres, 59 anni e due occhi brillanti di colori diversi – uno azzurro e l’altro nocciola – è la donna che indicherà la direzione a questo flusso di capitali in marcia verso la sostenibilità. Capo dell’Unfccc, l’organismo delle Nazioni Unite che guida il dibattito sul clima, Figueres è alle ultime battute di un lavoro estenuante per preparare la Cop21 di Parigi, dove si dovrebbe concludere a fine novembre, per la prima volta in oltre vent’anni di mediazione, un accordo vincolante e universale per contenere il riscaldamento del pianeta entro i 2 gradi, limite massimo fissato dai climatologi, oltre il quale gli attuali squilibri potrebbero assumere caratteri catastrofici.
Centrali per arrivare all’accordo saranno gli investimenti nelle fonti rinnovabili e nell’efficienza energetica, che consentono di svincolare la crescita dai consumi di idrocarburi, riducendo le emissioni di gas a effetto serra, come l’anidride carbonica. Qualche passo in questa direzione è già stato fatto, tanto che l’anno scorso, per la prima volta dall’invenzione della macchina a vapore, l’economia mondiale è cresciuta più del 3 per cento, mentre le emissioni sono rimaste piatte. Ma questo non basta. Per evitare l’ulteriore accumulo di gas serra in atmosfera, le emissioni dovrebbero cominciare a calare in fretta.
Il segreto è spostare gli investimenti dai combustibili fossili alle tecnologie pulite. L’International Energy Agency ha stimato attorno ai mille miliardi di dollari il fabbisogno annuale da investire in più rispetto ad oggi nell’energia verde entro il 2050, per far calare in modo significativo le emissioni globali. Il tono con cui Figueres si rivolge, in tutte le sedi, ai grandi decisori degli investimenti mondiali, dalle banche ai fondi d’investimento, è senza appello. “La direzione che prenderanno i capitali nei prossimi 15 anni è decisiva per capire se saremo in grado di affrontare i cambiamenti climatici e che tipo di vita potremo condurre, sia nel Nord che nel Sud del mondo”, insiste, esortandoli a fare le scelte giuste e a renderle pubbliche, così come ha chiesto di fare ai 196 Paesi che aderiscono all’Unfccc. Ad oggi, i Paesi che hanno già presentato i propri piani volontari di riduzione sono 146, equivalenti all’87% delle emissioni mondiali. Chi si è impegnato di più, chi di meno: la Cina, ad esempio, si è impegnata ad aumentare al 20% la quota di fonti rinnovabili nel suo mix energetico (il che significa realizzare una quantità di impianti eolici e solari equivalenti a tutta la potenza elettrica degli Usa), mentre la Corea del Sud non vuole spostarsi un millimetro da dove sta.
L’idea di sollecitare impegni dal basso invece che imporre limitazioni dall’alto può sembrare aleatoria, ma è un approccio scelto da Figueres a ragion veduta, dopo il fallimento della Cop15 di Copenhagen, dove le imposizioni top-down si erano rivelate impossibili da tradurre in un accordo. Nominata nel 2010 a capo dell’Unfccc, subito dopo quel fallimento, a cui seguirono le dimissioni del suo predecessore Yvo de Boer, Figueres è decisa a non ripetere il buco nell’acqua e a mettere la sua firma sul documento che rivoluzionerà i modelli di crescita del mondo. “Mi trovo molto a mio agio con la parola rivoluzione”, rileva Figueres, figlia di José Figueres Ferrer, che ha guidato la rivoluzione del 1948 in Costa Rica, è stato eletto tre volte presidente e nell’ultimo mandato ha abolito l’esercito per evitare derive autoritarie. La formazione da antropologa ha portato Figueres molto vicino a popolazioni particolarmente colpite dai cambiamenti climatici e da lì nasce il suo impegno, prima come rappresentante del Costa Rica nei negoziati per il clima e ora a capo dell’Unfccc.
L’eredità più importante ricevuta da Copenhagen è la partecipazione allo sforzo mondiale dei Paesi emergenti, che nella fase precedente, governata dal Protocollo di Kyoto, non erano stati chiamati a tagliare le proprie emissioni. Ora, con la Cina in cima alla lista dei Paesi inquinatori e l’India ben avviata verso il secondo posto, non possono più sottrarsi. In cambio, i Paesi industrializzati si sono impegnati a trasferire 100 miliardi all’anno di finanziamenti a progetti di decarbonizzazione nei Paesi emergenti, a partire dal 2020. Su questi 100 miliardi, “una cifra simbolica che dev’essere rispettata”, Figueres ha puntato tutte le sue forze ed è già a buon punto. In base a uno studio dell’Ocse, la finanza per il clima ha mobilitato l’anno scorso 62 miliardi di finanziamenti, in aumento rispetto ai 52 miliardi dell’anno prima. E’ un buon inizio. Nel meeting di Lima la Banca Mondiale si è impegnata ad aumentare di un terzo i suoi finanziamenti, mettendo altri 29 miliardi sul piatto. Nel suo ufficio di Bonn, Christiana Figueres comincia a rilassarsi. Ma non si può dare nulla per scontato.