Parlando di cambiamenti climatici, si tende a ragionare in termini globali, ma in base a uno studio appena pubblicato su Nature, nelle grandi città il riscaldamento del clima avrà effetti 2,6 volte più gravi, con ricadute importanti anche sull’aggravamento complessivo dell’effetto serra. Il responsabile è il fenomeno “isola di calore”, per cui nelle zone urbane si crea un microclima molto più caldo rispetto alle aree circostanti: cementificazione e superfici asfaltate, su cui corrono le automobili e si riversano gli scarichi dei condizionatori, contribuiscono a un maggiore accumulo di calore durante il periodo diurno, rilasciato per irraggiamento durante la notte, quando le differenze tra zone urbane e rurali possono superare i 5°C e arrivare anche ai 10°C per le metropoli più grandi.
“Ciascuna delle sofferte vittorie sui cambiamenti climatici, a livello globale, potrebbe essere spazzata via dagli effetti delle isole di calore urbane fuori controllo”, spiega Richard Tol, professore di Economia alla University of Sussex, che ha guidato lo studio. Vale quindi la pena di non sottovalutare le azioni locali, che potrebbero essere altrettanto, se non più importanti, di quelle su scala planetaria.
Il team internazionale di ricercatori ha passato al setaccio quasi 1.700 città per calcolare i danni all’economia locale delle isole di calore e ha condotto un’analisi costi-benefici sulle iniziative intraprese per combattere questo fenomeno, come pavimentazioni progettate per riflettere la luce solare e assorbire meno calore, tecnologie cool roof o tetti verdi, coperti di vegetazione, ma anche azioni più semplici, come programmi per aumentare significativamente il numero di alberi. Nelle città, che occupano solo il 2% del territorio, ma producono l’80% del Pil e ospitano oltre il 50% della popolazione globale, le perdite dovute al riscaldamento del clima potrebbero arrivare a quasi l’11% del Pil alla fine del secolo, contro una media globale del 5,6%, se non si farà niente. Cambiando anche solo il 20% dei tetti e delle pavimentazioni, invece, per trasformarli da magazzini di calore in strutture fredde con materiali ad hoc si potrebbe contenere la temperatura di quasi 1 grado, scrivono gli autori dello studio, e si finirebbe per risparmiare fino a 12 volte quanto si è speso per installarli e manutenerli. Ecco perché le città si attrezzano per tentare di contrastare il fenomeno delle isole di calore, che mette a dura prova gli abitanti e incide anche sul bilancio complessivo delle temperature globali.
Gli alberi sono una delle soluzioni più efficaci per ridurre le temperature. Non solo ombreggiano l’area in cui sono piantati, ma creano un ambiente fresco grazie al processo di evapotraspirazione espellendo acqua per raffreddarsi. Con questo sistema gli alberi possono abbassare le temperature dai 2 ai 9°C, a seconda di quanto è estesa l’area alberata. Vivere in prossimità di un’area verde incide quindi fortemente sulla necessità di utilizzare o meno l’aria condizionata. Uno dei casi più emblematici, negli Stati Uniti, è Louisville, al confine fra il Kentucky e l’Indiana, identificata dal Natural Resources Defense Council come una delle città americane più a rischio di surriscaldamento. Entro la fine del secolo a Louisville, secondo gli esperti, le ondate di calore potrebbero causare circa 19mila decessi in più. Così la città ha deciso di puntare sugli alberi e ha approvato un investimento da 1 milione di dollari per la piantumazione di ogni angolo inutilizzato.
In altre città le autorità hanno puntato su rivestimenti più riflettenti, cioè sull’albedo. I materiali utilizzati per i tetti e le pavimentazioni, infatti, hanno proprietà ottiche e termiche che favoriscono la ritenzione del calore. L’albedo è il potere riflettente di una superficie esposta alla luce e va da 0, per superfici che l’assorbono completamente) a 1, per il massimo di luce riflessa. L’albedo tipico delle città europee e americane è 0,15-0,30. Aumentando questi valori a 0,20-0.45 si potrebbe ridurre la temperatura di 4°C nei pomeriggi d’estate. E’ quello che è stato fatto a Los Angeles su Jordan Avenue, una delle strade più calde della città: il Comune ha deciso di sostituire il rivestimento, optando per un materiale bianco riflettente al posto dell’asfalto tradizionale nero e così la temperatura del suolo è scesa in media 10°C in un pomeriggio soleggiato, secondo l’agenzia di protezione ambientale. Nella stessa ottica è stato lanciato il White Roof Project a Brooklyn, dove decine di tetti sono stati dipinti di bianco, aumentando il potere di riflessione del 20% all’85% e la temperatura media all’interno dell’edificio da 46°C a 26°C, quando la temperatura esterna è di 32°C.
A Tokio, invece, si punta sull’acqua, un elemento ormai scomparso dalle nostre città per motivi d’igiene, con il progressivo interramento di rii e canali, com’è avvenuto a Milano. A Tokio, invece, dal 2003 è tornata una tradizione antica, quella dell'”irrigazione dei marciapiedi”, nota con il termine di Uchimizu. Per abbassare la temperatura delle strade, gli amministratori della megalopoli giapponese incoraggiano i residenti a conservare l’acqua piovana in cisterne, per poi spargerla sull’asfalto durante i periodi caldi.
Altre tecniche, più complesse, comprendono l’adeguamento del disegno delle città alle correnti d’aria, con l’apertura di corridoi per accogliere il più possibile i venti che soffiano più di frequente, così com’è stato fatto a Stoccarda, dove sono stati abbattuti diversi edifici che ostruivano il passaggio. Certo è che le città avrebbero grandi vantaggi a prendere provvedimenti decisi contro l'”isola di calore”, sia per il benessere dei propri abitanti che per combattere il riscaldamento climatico.