Un futuro verde: dev’essere un sogno, non un incubo

Se la chiamano carbon tax non piace. E’ un balzello ingiusto. Se invece la chiamano carbon offset, diventa subito più simpatica. E’ sempre una tassa, che alza il prezzo del biglietto aereo o della bolletta elettrica. Ma il nome è cambiato e non ce ne accorgiamo più. Il motivo per cui ci viene richiesta, in fondo, è poco rilevante. Le temperature globali aumentano, la calotta artica si scioglie, gli scienziati sono concordi nell’attribuire all’economia del carbonio la responsabilità delle devastazioni future, ma l’umanità non sembra interessata a correggere il tiro. I climatologi hanno un bel dire che il livello dei mari sta già salendo e New York sarà sott’acqua entro la fine del secolo se non riduciamo le emissioni di anidride carbonica del 50%. L’umanità da quest’orecchio non ci sente. Perché? La risposta è sepolta nei nostri geni: l’evoluzione ci ha attrezzati per reagire correttamente a una minaccia immediata, che vediamo o sentiamo. “La percezione fisica di un pericolo, come il ringhio di un animale o l’odore di bruciato, ci provoca una reazione emotiva di paura, che ci induce ad agire immediatamente”, spiega Elke Weber, una psicologa della Columbia University. “Ma i pericoli che minacciano oggi l’umanità non sono di questo tipo. Possono essere ben più gravi di un pitbull che ringhia, ma sono lontani nel tempo e nello spazio. Di conseguenza, anche se razionalmente ci rendiamo conto che bisogna fare qualcosa contro l’effetto serra, ci manca il classico campanello d’allarme per metterci davvero in moto”. Le nostre emozioni, dunque, si sono formate in base alle esperienze passate della specie: ma la specie umana, dall’origine a oggi, non aveva mai portato il pianeta al punto di “cottura” in cui è adesso. Weber, insieme a una manciata di altri ricercatori sparsi fra gli Usa e l’Europa, sta cercando di risolvere questo gap cognitivo: “Se il riscaldamento del clima dipende dal comportamento degli uomini, e il mondo scientifico è più o meno concorde su questo punto, bisognerà cambiare questo comportamento per risolvere il problema, no?” Partendo da questo ragionamento, Weber ha fondato qualche anno fa, insieme al collega David Krantz, il Center for Research on Environmental Decisions, pioniere di una disciplina che si colloca all’incrocio fra psicologia ed economia e trae le proprie origini dagli studi del Nobel Daniel Kahneman sulle decisoni finanziarie. Dai suoi test, sappiamo che la gente non segue la logica, ma altri tipi di considerazioni quando è messa di fronte a semplici scelte quotidiane: installiamo i pannelli solari sul tetto perché l’hanno fatto i vicini, non per salvare il pianeta, oppure compriamo l’auto ibrida perché è uno status symbol, non per il bene delle generazioni future. E sappiamo anche che le nostre risposte sono spesso dipendenti dal modo in cui la domanda viene posta. Chi si sottoporrebbe a un’operazione chirurgica che ha un tasso di mortalità del 20%? Ma con un tasso di successo dell’80%, la questione cambia, anche se l’operazione è la stessa.Se le politiche ambientaliste hanno poco seguito, dunque, vuol dire che il messaggio è sbagliato, così come spiegano anche Cass Sunstein e Richard Thaler nel loro libro “Nudge”, uscito l’anno scorso ma già un classico della psicologia applicata alla politica: Sunstein, un giurista, è stato chiamato da Obama alla Casa Bianca per applicare le sue teorie alla legislazione promossa dalla nuova amministrazione. “Il messaggio centrale del movimento ambientalista va ristrutturato”, spiega Tony Leiserowitz, direttore dello Yale Project on Climate Change. “Gli ambientalisti – precisa – hanno fatto un ottimo lavoro descrivendo il problema in termini di perdita: l’estinzione delle specie, la deforestazione… E questo è un bene, perché l’umanità è marcatamente contraria alle perdite. Ma non sono stati bravi a descrivere le soluzioni, che sembrano a loro volta delle perdite: disfatevi dell’auto, tagliate i consumi… In questo modo la gente si scoraggia e non fa più nulla”. Le soluzioni, invece, vanno presentate in termini positivi, parlando prima dei benefici e poi dei costi. La natura umana chiede alternative piacevoli, come nel caso delle British Transition Towns, dove si propone uno stile di vita sostenibile, ma pieno di significato e perfino di felicità, alla faccia dell’effetto serra. Martin Luther King non ha detto ai suoi seguaci “ho un incubo”, ma “ho un sogno”. E’ questo che li ha portati a marciare in prima linea per un futuro migliore.

Etichette: