Nell'orto botanico di Cascina Rosa, della Statale di Milano, cresce un melo più potente degli altri. E' stato creato per resistere alla melolonta, un elegante maggiolino che sta distruggendo i meli della Val d'Aosta. Le sue larve fanno strage delle radici e in breve tempo uccidono alberi di grande valore. Il melo valdostano così rischia l'estinzione, ma il suo omologo più resistente, costruito inserendo nel portainnesto un gene di Bacillus thuringiensis, è illegale in Italia. Non può essere piantato in terra e oggi non potrebbe nemmeno nascere, perché dal 2002 è bloccata anche la ricerca sugli Ogm, non solo la sperimentazione in campo. "In questo modo, per salvare il melo valdostano resta soltanto la chimica, ma anche quella in molti casi non basta: ci sono mele molto presenti sulle tavole degli italiani che subiscono ben 34 trattamenti antiparassitari all'anno, ma nessuno se ne preoccupa, invece dove gli Ogm sono legali, l'uso della chimica diminuisce drasticamente, come in Cina dove il cotone Ogm ha portato all'eliminazione quasi totale nell'uso di pesticidi, a tutto vantaggio della salute degli agricoltori e dei consumatori, per non parlare del risparmio sui costi di produzione", spiega Francesco Sala, il professore della Statale che ha creato i meli resistenti alla melolonta, inutilizzabili in Italia. "Le chiamano piante Frankenstein, ma mancano le prove che siano pericolose. Anzi, per la prima volta nella storia dell'agricoltura, gli ibridi prodotti con le biotecnologie devono essere sottoposti al vaglio di molte analisi scientifiche. Le piante utilizzate oggi in agricoltura, invece, non sono mai naturali, ma sono state selezionate senza tutti questi controlli. Per questo spesso sono più buone, ma più fragili dei loro antenati e hanno bisogno di interventi continui a base di pesticidi", precisa Sala. La situazione attuale dipende dalle condizioni storiche in cui si è sviluppata l'industria agraria nell'ultimo cinquantennio. La rivoluzione verde seguita alla seconda guerra mondiale ha contribuito a un enorme efficientamento delle tecniche agricole, ma alla perdita del 90% delle varietà di sementi utilizzate, rendendo gli agricoltori dipendenti da una o poche sementi, laddove un tempo ne usavano centinaia. Alla perdita di biodiversità, corrisponde la concentrazione dei produttori e rivenditori di sementi: nel 1990 le prime dieci società sementiere controllavano un quinto del mercato mondiale e nel 2000 il 32%, su un giro d'affari complessivo di 23 miliardi di dollari. Di pari passo, negli anni Settanta i produttori di pesticidi negli Usa erano 30, negli anni Novanta una decina. Sul fronte della ricerca, da un lato è cresciuta la genetica, che ha cercato di rendere le piante più resistenti dall'interno, ma nel contempo è cresciuta anche la chimica, da Montedison in poi, che punta allo stesso risultato con interventi esterni. Le multinazionali hanno utilizzato l'una e l'altra, creando un sistema integrato, fra sementi sterili, che devono essere ricomperate ogni anno, e trattamenti chimici mirati, a cui gli agricoltori non possono sottrarsi se entrano in quel sistema. "Alle multinazionali va sempre bene: se vogliamo gli Ogm ci danno gli Ogm, altrimenti ci danno i pesticidi, i loro guadagni li fanno comunque", commenta Sala. Per spezzare questo circolo vizioso, sta nascendo una rivoluzione verde 2.0, che punta a mettere a disposizione degli agricoltori le scoperte biotecnologiche, senza dover passare attraverso il sistema chiuso delle multinazionali. Richard Jefferson, un biologo australiano, ha fondato un movimento open source, Bios, che vorrebbe offrire al singolo gli strumenti di base per applicare da soli le biotecnologie, scegliendo liberamente l'approccio che preferisce. A chi è contrario agli Ogm si aprono così possibilità alternative d'intervento, come lo "smart breeding", una via di mezzo fra ingegneria genetica e selezione tradizionale. Con lo smart breeding si selezionano in laboratorio i geni da inserire per sviluppare determinate caratteristiche, si identifica la specie portatrice e poi si incrocia con la varietà locale usando le tecniche tradizionali. Il prodotto non è un Ogm e quindi non è brevettabile, ma la selezione è molto più rapida e precisa. In questo modo si potrebbe facilitare l'avvicinamento fra l'ingegneria genetica e l'agricoltura biologica, che molti genetisti considerano la carta vincente per il futuro. "L'agricoltura biologica ha dimostrato che è possibile ridurre drasticamente l'uso dei pesticidi", spiega Pamela Ronald, una genetista dell'Università della California a Davis, che ha isolato un gene capace di rendere il riso resistente a un batterio devastante per le risaie cinesi, brevettandolo e poi regalandolo a un gruppo di agronomi cinesi, che lo stanno inserendo nelle varietà ibride locali. "Ma le tecniche bio – aggiunge Ronald – presentano alcuni limiti invalicabili: molti parassiti e malattie delle piante non possono essere controllati con un approccio di questo tipo". Qui s'inserisce la prospettiva di un connubio con l'ingegneria genetica, che potrebbe diventare la soluzione migliore per saziare il mondo senza danneggiare l'ambiente.
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