Paul Samuelson

Preoccupazione per la fragilità della ripresa e per i deficit gemelli in crescita negli Stati Uniti, esortazione a una maggiore flessibilità nella politica monetaria europea, incoraggiamento alla nuova politica di aumento della produttività delineata negli scorsi giorni dal primo ministro italiano. A quasi novant'anni, il premio Nobel Paul Samuelson non perde una battuta. E nemmeno la voglia di scherzare.

Allora è vero che gli italiani lavorano poco?

"Mica solo gli italiani. La media di partecipazione al lavoro degli europei nella fascia d'età 55-64 anni non arriva al 40%, mentre negli Usa supera il 60%. Da noi il 12% degli ultrasettantenni lavora ancora. Io stesso, quando sono a Boston, vado quasi tutti i giorni al Mit, mentre in Europa credo che l'unico ultrasettantenne ancora in ufficio sia Chirac".

Quindi sarebbe una buona idea aumentare il tasso di partecipazione al mercato del lavoro…

"Più che una buona idea mi sembra una necessità impellente. Altrimenti i servizi sociali offerti dall'Europa ai suoi cittadini ben presto non saranno più sostenibili. Con i moderni sviluppi della scienza medica, ormai la vita umana si è talmente allungata che i lavoratori non sono più in grado di mantenere i pensionati a non far niente per trent'anni. Considerando poi le dinamiche demografiche disastrose che stanno rapidamente decimando la popolazione giovane europea, non c'è dubbio che l'età del pensionamento vada alzata, e di molto".

E che cosa ne pensa della proposta di sopprimere delle festività?

"Anche questo è un aspetto importante: la quantità di giorni lavorati incide sul prodotto e in Italia (ma anche in Europa continentale) il numero dei giorni lavorati è veramente troppo ridotto rispetto alle medie americane. Qui però bisogna stare attenti a non confondere l'aumento della produzione con l'aumento della produttività. In prospettiva, stimolare l'aumento della produttività è molto più importante, anche se si tratta di un'operazione più complicata rispetto al semplice taglio di due giorni festivi".

Che cosa consiglia?

"I metodi sono sempre gli stessi: maggiore mobilità e flessibilità nel mercato del lavoro, apertura all'innovazione, capacità di sviluppare una manodopera molto qualificata. Solo così si può battere la concorrenza dei Paesi emergenti e mantenere i posti di lavoro in Occidente. Bisogna dare una forte spinta alla ricerca e soprattutto stimolare uno scambio continuo fra il mondo accademico e quello produttivo. Per fare questo, è essenziale costruire un sistema dove i più brillanti fanno più strada, quindi gestire università e aziende su criteri meritocratici, non ingessati dalla burocrazia. Il Mit, dove ho insegnato per più di quarant'anni, è un buon esempio di questa interazione".

E la riduzione delle tasse?

"E' certamente utile stimolare gli investimenti con dei tagli fiscali, ma in un contesto come quello italiano, dove l'indebitamento pubblico supera il Pil, bisogna stare attenti".

Eppure gli Stati Uniti hanno usato questa forma di stimolo a piene mani, con buoni risultati…

"Dipende da che cosa s'intende per buoni risultati. E' vero che l'economia ha ripreso a girare, sostenuta dai consumi privati e negli ultimi mesi anche dagli investimenti delle imprese. Con una crescita del Pil all'8,2% nel terzo trimestre 2003 e al 4,2% nel quarto, non ci possiamo lamentare. Ma la mia sensazione è che questa ripresa resti ancora molto fragile. Anomala. Il ritmo lentissimo della creazione di nuovi posti di lavoro non corrisponde ai cicli normali. In un contesto normale, con un aumento del Pil di questa portata, la crescita dell'occupazione dovrebbe superare il 2% rispetto all'inizio del periodo recessivo, invece restiamo sotto del 3%. E se il mercato del lavoro non si rimette in moto, prima o poi i prodotti cominceranno a restare sugli scaffali".

Ma l'esportazione prospera con la debolezza del dollaro…

"E' vero. Malgrado ciò, il disavanzo commerciale resta altissimo e insieme al deficit di bilancio ha raggiunto dimensioni senza precedenti. Non a caso anche nei mercati finanziari si sta diffondendo una certa prudenza. E se la ripresa americana dovesse inciampare, l'Europa non sarebbe certo in grado di darle una mano per tirarsi su".

Che cosa manca alla congiuntura europea?

"Una politica monetaria. La Banca centrale europea mette insieme interessi troppo disparati per riuscire a seguire una linea coerente. Questo problema di fondo, che con il progressivo allargamento dell'area euro tenderà ad aggravarsi nel tempo, paralizza completamente la sua azione. In queste condizioni, l'Europa può solo andare al traino degli Stati Uniti, mai dare un suo contributo originale. Ma attenzione, se per una volta gli Stati Uniti avessero bisogno di aiuto, chi ci sarà a sostenerli?"

Etichette: