I tassisti di oggi combattono contro Uber, quelli di domani dovranno vedersela con la Google car. E prima di allora le città soffocate dall’inquinamento finiranno per chiudere alle macchine, così andremo tutti in bicicletta.
Scenari estremi a parte, il tassista dei giorni nostri, come il cocchiere di un tempo, è un mestiere che rischia di venire rimpiazzato dalle nuove tecnologie della quarta rivoluzione industriale. E non è il solo. I colletti bianchi di medio livello, che fanno lavori ripetitivi, perderanno quasi 5 milioni di posti di lavoro da qui al 2020, in base allo studio Future of Jobs, presentato al World Economic Forum di Davos. Nel manifatturiero, secondo lo stesso studio, oltre 1 milione e mezzo di posti di lavoro sono condannati dall’avvento delle fabbriche intelligenti. Cresceranno invece i mestieri più creativi, sia manuali che intellettuali, quelli dove l’imprevedibilità dei compiti mette le macchine fuori gioco. Alla fine dei conti, il rapporto del Wef prevede comunque una perdita netta di 5,1 milioni di posti di lavoro nelle prime 15 economie mondiali. Soluzioni? Andare tutti a costruire robot. Oppure a fare gli autisti a San Francisco. Ogni nuovo tech job, infatti, ne genera almeno altri quattro nei servizi che gli gravitano attorno, un effetto moltiplicatore molto più alto del manifatturiero tradizionale, come scrive Enrico Moretti nel suo “The new geography of jobs”. Non tutti, però, possono diventare ingegneri elettronici o spostarsi in California, come ha fatto lo stesso Moretti, che insegna economia a Berkeley. Per gli altri, le soluzioni sono più complesse. Ma nascono tutte dalla stessa base di partenza: abbracciare il cambiamento.
Il ritmo forsennato del mutamento è uno degli aspetti nuovi di questa rivoluzione 4.0. «Procedere con la testa rivolta all’indietro, come spesso accade in Europa, è un lusso che non possiamo più permetterci davanti all’accelerazione crescente», ragiona Jacques van den Broek, numero uno di Randstad, la seconda agenzia per il lavoro a livello mondiale. «Sia per le imprese che per i lavoratori è essenziale darsi una strategia chiara, che oggi non c’è», insiste il manager olandese, incontrato al forum «Future of Work» dell’Ocse a Parigi. Difendere la busta paga di domani, chiedendo formazione professionale e riqualificazione, è molto più importante, dunque, che impuntarsi sullo stipendio di oggi. E questo vale anche per le imprese, che rischiano di finire rimpiazzate da piattaforme nate per mettere direttamente in contatto i clienti finali con i servizi che cercano, saltando gli intermediari tradizionali, come nel caso degli alberghi con AirBnb, dei ristoranti con EatWith o degli studi legali con Axiom. Frammentazione del mercato, disintermediazione e “outsourcing di tutto” sono i corollari di un rapido processo di polarizzazione dei mestieri e di disgregazione del sistema produttivo, già in atto da tempo. La risposta, per Randstad, non è irrigidirsi ma aumentare la flessibilità del mercato del lavoro. «I Paesi più flessibili, come quelli scandinavi, godono di tassi altissimi di partecipazione al mercato del lavoro e al tempo stesso di una grande libertà da parte dei lavoratori, che possono riqualificarsi più facilmente», fa notare van den Broek. Niente di tutto ciò si riesce ancora a fare in Italia.
Negli Stati Uniti, la risposta più praticata viene dalla cosiddetta Gig Economy. «Oltre il 50% degli autisti di Uber negli Usa lavorano meno di 10 ore alla settimana e molti lo fanno solo occasionalmente, per integrare un altro salario, per potersi permettere un acquisto o per affrontare una spesa imprevista senza andare in bancarotta», spiega David Plouffe, ex-consigliere del presidente Barak Obama e oggi stratega di Uber. «In Francia, invece, quasi tutti gli autisti lavorano full-time e uno su quattro prima era un disoccupato di lungo periodo», aggiunge Plouffe, in margine al forum dell’Ocse, per far capire quanto sia diverso, e più problematico, l’approccio a questo modo di lavorare sulla nostra sponda dell’Atlantico.
Resta da chiedersi che cosa ne sarà di quegli autisti che hanno Uber come unico datore di lavoro, quando vorranno andare in pensione. Per Philippe Aghion, professore di economia a Harvard, è in arrivo un’ondata di sindacalizzazione dei lavoratori autonomi che cambierà il futuro delle professioni digitali. La crescita del dibattito sul salario minimo garantito lo dimostra. «I neocon pensano che in un’economia digitalizzata non ci sia bisogno dello Stato, ma è vero il contrario: solo con una rete di protezione i lavoratori si sentiranno abbastanza sicuri da assumersi il rischio di innovare e di cambiare mestiere». Non solo imprese e lavoratori, dunque, ma anche il legislatore deve tenere il ritmo del cambiamento. La minaccia più grande, per Eli Noam, professore di Public Policy alla Columbia, è proprio «il fossato che si sta scavando fra lo sviluppo esponenziale delle nuove tecnologie e la lentezza con cui si evolvono le nostre società». La legge di Moore non si applica né alla regolamentazione del mercato del lavoro né all’evoluzione della società.