Irene Tinagli

"Purtroppo i numeri rispecchiano abbastanza fedelmente l'immagine dell'Italia come viene percepita dagli stranieri: un Paese molto bello ma straordinariamente provinciale, tradizionalista e chiuso all'innovazione. Dove la libera concorrenza è molto limitata dai rapporti privilegiati interni alla classe dirigente, sia nel mondo del business che in quello accademico. Dove nessuno parla l'inglese e quindi è difficile comunicare. Dove perfino i film sono doppiati e dunque l'offerta culturale per uno straniero di passaggio è terribilmente limitata". Irene Tinagli, dottoranda alla Carnegie Mellon e co-autrice dell'Euro-Creativity Index insieme a Richard Florida, è un tipico cervello in fuga. Nata a Empoli 29 anni fa, sposata con un collega italiano impegnato come lei nel dottorato, si è laureata in economia aziendale alla Bocconi, dov'è rimasta poi per tre anni. Con una borsa di studio Fulbright ha preso il volo verso Pittsburgh per un master in Public Policy and Management. Ora sta per arrivare il dottorato.

Nostalgia?

"Mi manca la mia famiglia, ma sul medio periodo non ho intenzione di tornare. Qui è quasi un paradiso per chi ama davvero la ricerca".

In che senso?

"Prima di tutto le differenze culturali: qui i professori ti considerano un collega, ti ascoltano come un loro pari, si prendono tutto il tempo necessario per discutere le tue proposte. In Italia il dottorando è lo schiavo del professore, che spesso lo degna appena di una parola ogni sei mesi e poi magari si appropria del suo lavoro senza che nessuno batta ciglio".

Vantaggi economici?

"Le tasse scolastiche sono altissime, ma l'università ti consente di gestirti in maniera molto più imprenditoriale. Se lavori per loro ti pagano separatamente dalla borsa di studio e in questo modo si riesce a cavarsela. E poi le prospettive sono molto attraenti. Sulle retribuzioni dei professori c'è una differenza abissale rispetto all'Italia. Ma non si creda che qui venga tutto facile: devi essere pronto a dare sempre il massimo, perché il sistema è sì stimolante, ma molto competitivo. La soddisfazione viene dal fatto che in linea di massima vince il migliore".

Euro Creativity Index: Italia ultima in creatività

Italia patria della creatività, dello stile, dell'arte, del saper vivere? "Tutti luoghi comuni. Nell'indice europeo della creatività l'Italia si colloca agli ultimissimi posti, insieme a Grecia e Portogallo. E non sembra destinata a migliorare in futuro, ma piuttosto a essere ancora scavalcata, com'è già successo con la Spagna e l'Irlanda, che in questi anni hanno corso molto più di voi". Richard Florida, professore di Sviluppo economico alla Carnegie Mellon University e autore insieme all'italiana Irene Tinagli del primo Euro-Creativity Index, non si fa impressionare dai miti del passato e guarda ai numeri. Per comporre il suo indice europeo, improntato agli stessi criteri usati nell'analogo indice americano che esiste già da molti anni, Florida prende in considerazione nove indicatori in tre grandi campi, che chiama le tre T dello sviluppo economico: tecnologia, talento e tolleranza. "L'abilità di competere e prosperare nell'economia globale – scrive Florida nel suo studio – non dipende più solo dalla vivacità degli scambi di beni e servizi o dall'afflusso di capitali e investimenti. Dipende invece dalla capacità delle nazioni di attirare, trattenere e sviluppare gente creativa". Insomma, in questa economia post-industriale dominata dalla produzione immateriale non sono più le persone che si spostano verso i posti di lavoro ma sono i posti di lavoro che corrono dietro alle persone. Laddove si sviluppa una sana interazione fra università, industria, ricerca e ambiente circostante, che dev'essere piacevole, funzionale e aperto agli stranieri e alle loro diversità culturali, arrivano prima o poi anche le persone giuste, nuova linfa imprenditoriale e quindi sviluppo economico. Il modello bostoniano con il Mit, Harvard e la sua imprenditoria sul filo del futurismo industriale fa scuola, ma il primato degli Stati Uniti stavolta sembra eclissato dal modello svedese, che nell'indice appena uscito batte per la prima volta quello americano. Seguono a ruota Finlandia, Olanda, Danimarca e Belgio, che superano o arrivano testa a testa con i pesi massimi Francia, Regno Unito e Germania. Ma quali sono i punti di debolezza del Belpaese, che ci collocano così lontani dal modello scandinavo vincente? "Uno dei problemi fondamentali del nostro sistema Paese è la mancanza di mobilità", commenta Severino Salvemini, presidente della SDA-Bocconi (la Scuola di direzione aziendale) e direttore del corso di laurea in Economia per le arti, la cultura e la comunicazione. Salvemini sta avviando insieme al sociologo Aldo Bonomi un progetto con Assolombarda mirato proprio a identificare i "luoghi di corto circuito creativo" all'interno della grande Milano, "dove abbiamo dieci univesità e duecentomila studenti universitari, una massa di potenziale creativo enorme che nessuno mette a frutto". Basandosi sugli indicatori identificati da Florida, lo studio vorrebbe capire quali sono i mezzi migliori per sostenere e governare un sistema di circolazione d'idee che potrebbe diventare l'humus di base per una nuova rinascita: "Bisogna riscoprire e sostenere quei luoghi, come il Leoncavallo, l'Isola o Corso Como, dove grazie alle attività culturali o all'happy hour s'incrociano le varie tribù professionali e studentesche, che nella vita quotidiana invece non s'incontrano mai, perché è da questa contaminazione dei generi che nascono i progetti originali", spiega Salvemini. "Il dramma dell'Italia – conclude – è che i creativi se ne stanno da una parte e le imprese dall'altra. E nessuno fa niente per incentivarli ad incontrarsi. Alla base di problemi come la carenza di investimenti in ricerca e sviluppo, la penuria di brevetti (specie nell'hi-tech) e la scarsità di ricercatori o di lavoratori creativi, cioè gli stessi problemi che ci spingono così indietro nell'indice della creatività europea, c'è proprio l'uso scorretto dei cervelli accademici, un asset straordinario che l'Italia non sfrutta". Con quest'analisi concorda Arturo Artom, presidente e amministratore delegato di Netsystem, una delle aziende italiane più all'avanguardia nel campo delle telecomunicazioni, leader europea nella diffusione di Internet a banda larga via etere. Artom, che rappresenta le piccole e medie imprese nel direttivo di Federcomin (federazione confindustriale del settore informatica, tlc e radiotv), porta l'esempio del Mit, "dove le aziende sponsorizzano progetti di contaminazione fra studenti di chimica, di medicina e d'ingegneria, chiedendo loro espressamente di produrre le follie più stravaganti, al limite della fantascienza". In un mondo dove le innovazioni sono talmente veloci da rendere obsoleto in pochi mesi qualsiasi prodotto, anticipare il futuro diventa fondamentale: "Con queste fertilizzazioni incrociate le aziende vogliono gettare uno sguardo oltre lo steccato, vedere dove andranno a parare le esigenze dei consumatori di domani. E per annusare il futuro pagano schiere di ricercatori a cui si chiede solo di sbizzarrirsi in maniera creativa". Chiaro che poi ogni invenzione viene soppesata, misurata e valutata nelle sue ricadute concrete come solo gli americani sanno fare, ma il punto di partenza resta in mano alle avanguardie dei creativi. "In Italia abbiamo migliaia di piccole imprese capaci di creare innovazione di processo e di prodotto, ma invece di farle correre a briglia sciolta attivando nuovi canali di credito e facilitando la mobilità imponiamo mille pastoie burocratiche tarpando loro le ali". Un contesto "estremamente conformista", secondo Artom, taglia le gambe alla competitività italiana: "Guardiamo agli spagnoli, come sono cresciuti. Vent'anni fa eravamo il loro mito e oggi siamo noi che arranchiamo dietro a loro". "Purtroppo questo è un problema che l'Italia non vuole affrontare", conclude amaramente Renato Ugo, ordinario di chimica alla Statale di Milano e presidente dell'Airi (Associazione italiana ricerca industriale). "Crediamo di potercela cavare sfruttando lo stile innato che abbiamo iscritto nel nostro Dna, senza renderci conto che non porta valore aggiunto perché non ha barriere d'ingresso. Basta copiarlo e in breve s'impara a riprodurlo perfettamente, come i cinesi fanno ormai da anni con grande successo", ragiona il professore. "Anche dalle recenti leggi varate dal Parlamento risulta evidente che gli italiani continuano ad opporsi allo sviluppo scientifico e preferiscono concentrare tutti i propri sforzi sullo styling o il marketing, di cui il made in Italy è maestro. Ma limitarsi a migliorare o adattare tecnologie già note non è più un fattore di crescita. Solo la ricerca seria, quella che inventa davvero (tipica della grande industria che non abbiamo più), potrà tenere a galla le economie occidentali di fronte all'onda di piena dei Paesi in via di sviluppo". "Malgrado la loro potente efficienza manifatturiera – sostiene Florida – non saranno l'India o la Cina i leader economici del futuro. Saranno le nazioni e le regioni del mondo più brave nel mobilitare il talento creativo della propria gente e nell'attirarlo dall'estero". Ma ci sarà ancora l'Italia fra questi leader?

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