Kyoto: i ritardi dell’Italia

Il contatore gira e segna un debito di 5 milioni di euro al giorno. E’ quello che l’Italia sta accumulando inesorabilmente per lo sforamento delle emissioni di anidride carbonica rispetto all’obiettivo previsto dal protocollo di Kyoto, di cui si è celebrato recentemente il terzo anniversario dall’entrata in vigore. Dal 1° gennaio di quest’anno, le industrie europee devono cominciare ad adeguarsi agli obblighi del protocollo. Ma nei fatti ci separa dall’obiettivo di Kyoto un divario di quasi 100 milioni di tonnellate di CO2 da tagliare e ogni ritardo comporta costi crescenti. Per la precisione, i calcoli del Kyoto Club – associazione di imprese impegnate nella difesa del clima – indicano un costo di 63 euro al secondo, assegnando un valore prudenziale di 20 euro per tonnellata all’anidride carbonica prodotta. Un debito che in tre mesi ha raggiunto i 500 milioni e a fine anno arriverà a due miliardi di euro. I costi di Kyoto non si pagano come una tassa, ma alla fine peseranno lo stesso sulle tasche dei cittadini. Sono costi che dovranno sostenere le imprese italiane dell’energia o di altri settori ad alte emissioni, per adeguarsi ai limiti internazionali. In base agli accordi presi in sede europea, nel periodo 2008-2012 l’Italia deve ridurre del 6,5% le sue emissioni rispetto a quelle misurate nel 1990. Ma mentre negli altri Paesi europei sono state prese misure graduali per raggiungere il target, dal ‘90 ad oggi le emissioni italiane sono cresciute del 12% invece di diminuire, quindi la riduzione da operare entro il 2012 per noi supera ormai il 18%. Un taglio gravosissimo, che peserà in larga parte sui portafogli degli utenti. Le imprese avranno tre strumenti per adeguarsi: investire in tecnologia per diventare più efficienti, realizzare impianti di energia pulita all’estero oppure comperare a caro prezzo i crediti di emissione sui mercati internazionali. La conseguenza saranno bollette elettriche più alte e produzioni più care per i settori più esposti, come la siderurgia o le cartiere. Con una perdita di competitività per chi non riesce a stare al passo. Man mano che il ritardo si aggrava, i costi si accumulano. Ma le imprese al momento attuale non hanno ancora a disposizione uno strumento fondamentale per operare le riduzioni: il piano nazionale di allocazione delle emissioni, varato con grande ritardo dal governo uscente e attualmente all’esame dei tecnici di Bruxelles. Nel periodo di adeguamento 2008-2012, la quantità di emissioni assegnate all’Italia dalla Commissione europea è pari a 483 milioni di tonnellate di CO2. Il taglio di oltre 90 milioni di tonnellate rispetto alla realtà attuale dev’essere ripartito equamente dal governo sugli oltre mille impianti italiani coinvolti, assegnando un tetto di emissioni annuali impianto per impianto. Per definire questa spartizione ci sono voluti molti mesi e la firma sul piano nazionale di allocazione dei due ministri interessati, Pier Luigi Bersani e Alfonso Pecoraro Scanio, è arrivata in extremis solo dopo la crisi di governo.Sta ora alla Commissione decidere se il piano italiano ottempera agli obblighi. Poi si tratterà di assegnare a ogni impresa le cosiddette unità di emissione di CO2 relative ai suoi impianti, che le consentiranno l’accesso al mercato europeo di scambi, l’Ets. Per ora, le imprese italiane non possono sfruttare il sistema dell’emission trading europeo, di cui beneficiano invece le imprese degli altri Paesi dell’Unione, dove le unità di emissione per l’anno in corso sono state assegnate entro il 28 febbraio, come previsto dalle regole dell’Ets. Ci troviamo quindi nella situazione paradossale di essere entrati in un sistema di trading… senza il trading. E a giudicare dalla rapidità con cui galoppa il caro-carbonio, trainato dal boom di tutte le materie prime, più si aspetta a comprare e più salato sarà il conto.

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