Kyoto ama l'ambiente, ma fa soffrire il Pil. Le stime del suo impatto sui prezzi dell'energia e sulla crescita economica si sprecano. Secondo uno degli studi più recenti (condotto dalla società di analisi Global Insight per l'International Council for Capital Formation, noto think tank d'impostazione liberista basato a Bruxelles), la riduzione delle emissioni del 6,5% imposta dal protocollo potrebbe decurtare di mezzo punto percentuale il Pil italiano da qui al 2010 e di quasi 2 punti da qui al 2020. La stessa commissaria europea all'Energia e ai Trasporti, Loyola De Palacio, ha ammesso che "l'Italia ha un problema, se vuole mantenere la sua crescita e nel contempo rispettare gli impegni di Kyoto: già oggi deve importare parte dell'energia che usa". Secondo la commissaria le uniche due strade percorribili sono "le fonti rinnovabili o il nucleare". La De Palacio, com'è noto, propende per il nucleare. O meglio, considera l'opzione nucleare l'unica alternativa ai combustibili fossili fruibile nell'immediato. E non è l'unica: Tony Blair ha appena manifestato l'intenzione di ampliare il parco nucleare britannico (secondo in Europa solo a quello francese), proprio per rispettare i parametri di Kyoto senza rinunciare alla crescita. Ma l'Italia non può premere sul pedale del nucleare e quindi si trova di fronte a un dilemma: come ridurre le emissioni di anidride carbonica senza danneggiare l'economia? Un dilemma valido per tutti i Paesi industrializzati, ma particolarmente acuto nel contesto italiano, caratterizzato da una dipendenza dal petrolio molto più marcata e da un grave deficit di generazione elettrica, che già oggi causa bollette più alte del 20% rispetto alla media europea. Ecco perché Roma sta trascinando i piedi sul piano di allocazione nazionale delle quote di emissione, l'elemento fondamentale su cui si baserà l'applicazione in Europa del protocollo di Kyoto. "Se non ci si metterà d'accordo entro ottobre – commenta il direttore generale del ministero dell'Ambiente Corrado Clini, negoziatore italiano a Bruxelles – si potrebbe anche arrivare a una rottura e tutta la materia potrebbe tornare all'esame del Parlamento europeo". Non è la prima volta che Clini punta i piedi su Kyoto: nel maggio 2001, quando l'Unione Europea si apprestava a decidere l'applicazione unilaterale del protocollo e il governo Amato stava per passare la mano al governo Berlusconi, l'artefice della diplomazia ambientale italiana causò un mezzo incidente diplomatico, formalizzando a Bruxelles le riserve italiane – in netto contrasto con la posizione del ministro in carica Willer Bordon – e allineandosi in pieno con il programma elettorale della CdL, che definiva "devastanti per l’economia e l’occupazione" gli accordi di Kyoto. La stessa visione del governo Bush, contrario alla ratifica del protocollo firmato da Clinton nel '97. Ma subito prima di cedere la sua poltrona ad Altero Matteoli, Bordon diede la piena adesione dell’Italia al documento predisposto dall’Ue, con cui si sanciva la volontà dell’Unione di procedere unilateralmente all'applicazione di Kyoto. E infatti il protocollo è stato ratificato da tutti i Paesi europei entro il 2002 e nel 2003 è passata la direttiva sull'Emissions Trading, da cui discendono i piani nazionali di allocazione dei permessi di emissione. Oggi il ministero italiano dell'Ambiente ha una posizione formalmente diversa: "Non pensiamo di mettere in discussione – spiega Clini – l'obbligo dell'Italia di tagliare il 6,5% delle emissioni di anidride carbonica rispetto allo status quo del '90, come vuole Kyoto". Ma Roma ha sempre mantenuto le sue riserve, coalizzandosi con la Spagna e la Finlandia per tirare il freno sull'applicazione unilaterale del protocollo. A questo punto, l'Italia spera nell'avvicendamento ai vertici dell'Unione per evitare l'obbligo di applicare i tetti rigidi richiesti dalla direttiva sull'Emissions Trading, come risulta chiaro anche dal piano di allocazione delle quote che Clini ha presentato in luglio a Bruxelles. "E' necessario – puntualizza Clini – che vengano riconosciute le diverse condizioni di partenza dell'Italia rispetto agli altri Paesi europei: da un lato abbiamo un sistema industriale che ha già raggiunto un'elevata efficienza energetica, dall'altro lato abbiamo un grave gap da colmare tra domanda e offerta di energia, che gli altri Paesi non hanno. Non possiamo pianificare il blackout elettrico del Paese". Sui possibili aumenti della bolletta elettrica legati a Kyoto si è appena pronunciata anche l'Autorità dell'energia, difendendo il piano italiano presentato a Bruxelles e minacciando rincari nell'ordine del 5% o più, se si seguisse "una mera interpretazione letterale della direttiva europea". In pratica, l'Italia chiede all'Unione maggiore flessibilità: "Vogliamo evitare ad ogni costo che tutto si riduca a interventi unilaterali di sapore dirigistico". E non fa mistero di un certo scetticismo nei confronti del meccanismo su cui dovrebbe basarsi in mercato interno delle emissioni: "Posto un tetto di emissione – descrive Clini – ogni sito produttivo disciplinato dalla direttiva otterrà un certo numero di permessi, misurati in tonnellate metriche di anidride carbonica, che potranno essere scambiati con altri sotto forma di quote. I settori più coinvolti sono quello energetico, minerario, siderurgico, cartario, le raffinerie, i cementifici, le vetrerie, i prodotti ceramici e i laterizi. Se a fine anno un'azienda oltrepasserà il numero di permessi che le è stato assegnato, sarà passibile di sanzioni di 40 euro a tonnellata nel periodo 2005-2007 e di 100 euro dal 2008. Ma dove sono finiti i meccanismi di mercato?"Per di più Roma non vuole perdere di vista il contesto internazionale, anche per motivi economici: "Preferiamo puntare sui crediti derivanti da progetti realizzati in cooperazione con i Paesi dell'Europa orientale o con quelli in via di sviluppo – insiste Clini – dove i costi sono molto più contenuti. Il costo intereuropeo di una tonnellata di anidride carbonica varia dai 15 ai 40 dollari, mentre nei Paesi meno industrializzati si aggira sui 5 dollari. Abbiamo già aperto un fondo presso la Banca Mondiale, l'Italian Carbon Fund, fatto apposta per comprare crediti fuori dall'Europa. E abbiamo già chiarito a Bruxelles che il pieno recepimento in Italia della direttiva sull'Emissions Trading è fortemente legato all’approvazione della cosiddetta Linking Directive, che regolamenterà l’uso di questi crediti, favorendo il processo di internazionalizzazione delle imprese".
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