C'è chi parla di 100 miliardi di dollari all'anno da qui al 2020, altri stimano molto di più. Questo è il prezzo di un accordo internazionale per tagliare le emissioni responsabili dell'effetto serra e avviare il mondo verso un'economia a bassa intensità di carbonio. E' per concordare questo prezzo che i rappresentanti di oltre 190 Paesi si riuniranno a Copenhagen dal 7 al 18 dicembre.
In pratica, a Copenhagen ci sarebbe da raggiungere un'intesa sulle percentuali di riduzione delle emissioni da parte dei Paesi ricchi – il che equivale a tagliare i consumi dei combustibili fossili, le risorse energetiche meno costose – e di convincere i Paesi in via di sviluppo, se non a tagliarle, almeno a stabilire dei parametri per frenarne la crescita. Convincerli significa finanziare il trasferimento di tecnologie per l'energia pulita e anche assistere economicamente le nazioni più povere, che sono le più colpite dagli attuali e futuri rovesci del clima. Ma è già chiaro che i leader mondiali non riusciranno ad arrivare così nei dettagli da fissare parametri vincolanti. Sarà già tanto se si accorderanno su un percorso di massima per consentire ai negoziatori di arrivare a quel risultato in seguito. Un accordo politico vero, condiviso da tutti, da tradurre poi in cifre con calma, sarebbe un grande successo. "Spero che andremo ben al di là di una semplice dichiarazione d'intenti", ha commentato Yvo De Boer, il capo della diplomazia climatica dell'Onu. Altrimenti, si rischia di arrivare alla scadenza del protocollo di Kyoto, nel 2012, senza un accordo vincolante e il negoziato sull'effetto serra rischia di trasformarsi in un altro Doha Round. Con le conseguenze sul clima che tutti possiamo immaginare.
Resta il fatto, però, cha la macchina per la riconversione dell'economia mondiale verso una bassa intensità di carbonio, messa in moto nel '97 dal protocollo di Kyoto, viaggia anche da sola. Gli europei hanno già preso la decisione di ridurre le emissioni del 20% al 2020 e la seguiranno in ogni caso. Gli americani, ex inquinatori numero uno (oggi scavalcati dalla Cina) hanno in discussione in Congresso un Climate Change Bill che nella migliore delle ipotesi fisserà un taglio delle emissioni al 20% e nella peggiore al 14%. I giapponesi hanno offerto ai negoziati una riduzione del 25%. I cinesi parlano di un taglio del 20%. E per rimettere in moto l'economia mondiale abbattuta dalla crisi si parla ormai di Green New Deal: il 15% dei piani di stimolo all'economia varati globalmente negli ultimi mesi, stimati sui 2.800 miliardi di dollari complessivi, sono diretti a interventi verdi, nella convinzione che la riconversione del sistema energetico dai fossili alle rinnovabili rilancerà l'occupazione e creerà nuove aziende innovative.
Nel grande business ci sono ormai almeno una decina di coalizioni, nate per sensibilizzare il mondo politico di fronte ai rischi del cambiamento climatico. Una di queste, il Carbon Disclosure Project, ha presentato nell'ultima riunione pre-Copenhagen alle Nazioni Unite un documento dove rivela che il 52% delle aziende dello S&P 500 abbia già adottato misure per la riduzione delle emissioni-serra, in barba alle lentezze della politica. "Le grandi aziende – ha detto Paul Dickinson, il capo del progetto – dimostrano di essere pronte, capaci e perfino desiderose di intraprendere misure per il taglio dell'anidride carbonica". "Se non ci muoviamo subito – ha detto Brad Figel, direttore degli affari pubblici della Nike – tutto diventerà più costoso, più arduo e rischioso". "Il 95% dei nostri prodotti è basato sul cotone – ha rimarcato Anna Walker di Levi Strauss, durante la presentazione del Carbon Disclosure Project – e la scarsità d'acqua potrebbe diventare un dramma". Non a caso, i mercati premiano tutto quello che è colorato di verde e l'energia pulita galoppa in Borsa come le dot-com alla fine degli anni Novanta. Ancora una volta, le grandi aziende sono più veloci del mondo della politica.