Costi più alti per i reattori dopo Fukushima

La frenata del nucleare dopo il terremoto in Giappone è cominciata in Germania: 7 reattori spenti da un giorno all'altro per la moratoria di tre mesi imposta dalla cancelliera Angela Merkel. Poi il ripensamento si è esteso alla Svizzera, che ha bloccato i suoi piani di appalto per due nuovi reattori, destinati a sostituirne altri due, ormai prossimi alla pensione. I quattro reattori in programma nel Regno Unito procedono, ma subiranno dei rallentamenti per lo slittamento da giugno a settembre dell'autorizzazione da parte del ministero della Sanità e dell'Ambiente. Da noi, invece, la rinascita nucleare sembra definitivamente bloccata, dopo la moratoria del programma atomico del governo e l'azzeramento del referendum di giugno.

Per la Germania, la Svizzera e il Regno Unito si tratta di numeri importanti: i tedeschi coprono con il nucleare il 22% del proprio fabbisogno energetico, gli svizzeri il 40% e i britannici il 18%. Nel breve periodo, sostiene J.P. Morgan, la chiusura dei reattori costerà a E.on e Rwe 360 milioni di euro ciascuna in termini di minori profitti, ma nel medio termine le perdite dovrebbero essere compensate dall'aumento dei prezzi all'ingrosso dell'elettricità, che sono già saliti del 12%. Per l'Italia, invece, non è un grande sforzo, visto che il nucleare non ce l'abbiamo e l'energia è già più cara del 20-25% rispetto alle medie europee.

Se anche la battuta d'arresto fosse temporanea, resta il fatto che gli "stress test" su cui si è impegnata l'Europa, per verificare lo stato di salute dei 143 reattori attivi nell'Unione, faranno salire i costi di gestione di questi impianti. Perfino i francesi, che coprono con il nucleare l'80% del proprio fabbisogno energetico e quindi non possono certo permettersi ripensamenti, hanno convenuto, per bocca del numero uno di Edf, Henri Proglio, che "gli standard e le procedure dovranno essere armonizzati a livello europeo". E i primi contraccolpi del ripensamento tedesco stanno arrivando sul mercato delle fusioni: Siemens vuole disdire l'accordo di joint venture siglato due anni fa con il colosso nucleare russo Rosatom. 

La reazione europea si rispecchia sul piano internazionale: la Cina, impegnata in un gigantesco programma nucleare con 27 nuovi reattori, sui 62 in costruzione nel mondo intero, ha congelato le procedure di approvazione dei nuovi progetti. Non a caso, il capo dell'Agenzia Internazionale dell'Energia, Nobuo Tanaka, ha parlato di un possibile ridimensionamento per la quota di produzione elettrica da fonte nucleare, oggi al 14% nel mondo e prevista in crescita al 16% nel 2030. "Costruire nuovi reattori potrà comportare, d'ora in poi, costi maggiori o tempi più lunghi", ha detto Tanaka. "Questo significa che le nostre previsioni di crescita per la fonte nucleare potrebbero essere ridimensionate". Di conseguenza, le quotazioni dell'uranio sono cadute, insieme ai titoli delle società minerarie come Cameco, Rio Tinto o Bhp Billiton. Anche le azioni delle compagnie elettriche internazionali impegnate sul fronte nucleare perdono terreno.

Negli Stati Uniti, il ministro dell'Energia Steven Chu ha assicurato che l'amministrazione Obama manterrà i suoi impegni. Ma a questo punto tutti gli occhi sono puntati sulla nuova strategia energetica tedesca, che verrà annunciata entro metà giugno. Il Fraunhofer Institut sostiene che abbandonare il nucleare richiederebbe investimenti per 245 miliardi di euro. I dubbi dei politici sono fortissimi, come ha espresso chiaramente il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble: "La domanda è: come si esce dal nucleare in modo accettabile da un punto di vista economico? E soprattutto, chi sostiene il costo di un'uscita anticipata: il contribuente o il consumatore?". I settori produttivi più energivori – tra cui la meccanica, la chimica e la siderurgia – sono preoccupati. Ma se anche un Paese manifatturiero come la Germania dovesse decidere di fare a meno del nucleare, il futuro di questa fonte sarebbe davvero segnato.