Quando la scienza deve scendere a patti

La California è a secco, l’India è sommersa dalle piogge, i ghiacci eterni si sciolgono, la Polinesia perde pezzi, le api scompaiono, ma l’umanità non si è ancora messa d’accordo su come fermare le emissioni a effetto serra. A un quarto di secolo di distanza dalla sua fondazione, l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) si appresta a pubblicare le conclusioni finali del suo quinto rapporto sui cambiamenti climatici, dove si ribadisce la stretta correlazione fra il riscaldamento globale e le attività umane, ma i negazionisti hanno ancora buona stampa, tanto che da allora ad oggi le emissioni globali a effetto serra sono aumentate del 60%.

In teoria, i governi del mondo sono tutti d’accordo. Alla pubblicazione del primo capitolo del rapporto, esattamente un anno fa, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon disse: “The heat is on, we must act”. E il segretario di Stato americano John Kerry concordò: “Chiunque neghi l’evidenza o cerchi dei pretesti per non agire sta giocando con il fuoco”. A fine ottobre, quando le conclusioni del quinto rapporto verranno presentate a Copenhagen, sentiremo ripetere le stesse frasi convinte.

Nel frattempo, però, c’è un altro processo in corso. Mentre gli scienziati dell’Ipcc, guidati dall’indiano Rajendra Pachauri, stanno faticosamente raggiungendo il consenso sulla loro opera monumentale, che in quattro volumi e migliaia di pagine fa il punto sull’effetto serra, nella stanza accanto i delegati governativi sono nel pieno dei negoziati per trovare un punto di caduta pratico all’obiettivo di mantenere il riscaldamento globale entro i 2 (ormai 3) gradi centigradi, oltre i quali le conseguenze per il clima e per l’umanità si annunciano catastrofiche. Ban Ki-moon punta tutto sulla conferenza di Parigi, che si terrà l’anno prossimo, per salvare il processo collaborativo partito con il protocollo di Kyoto e scaduto a fine 2012 senza trovare nuovi accordi vincolanti.

Se anche Parigi, come Copenhagen nel 2009, finirà in un nulla di fatto, potremo mettere una croce sopra agli sforzi collettivi di mitigazione del riscaldamento globale, intrapresi un quarto di secolo fa, ma oggi considerati troppo costosi da molti Paesi del mondo, soprattutto fra gli emergenti. E non sarà una bella giornata per le Nazioni Unite.

I due processi, dunque, quello scientifico e quello politico, s’intrecciano e s’intralciano a vicenda. L’Ipcc, infatti, è un foro eminentemente scientifico, che si basa sulla partecipazione gratuita di centinaia di accademici provenienti da tutto il mondo, ma non può prescindere dalle opinioni esterne. Per raggiungere il massimo del consenso, ognuno dei tre gruppi di lavoro, che hanno contribuito a stilare i tre capitoli principali e poi la sintesi finale del rapporto, sono stati costretti a confrontarsi con il parere di migliaia di commentatori esterni. Il primo gruppo di 800 scienziati ha lavorato sugli aspetti fisici che influenzano i cambiamenti climatici e ha dovuto rispondere a oltre 50mila commenti prima di pubblicare la sua relazione un anno fa. Gli altri due gruppi, che hanno presentato in marzo e aprile i due capitoli sull’impatto dell’effetto serra e sulle proposte d’intervento per mitigare quest’impatto, hanno avuto un’esperienza analoga.

Ma non è finita qui: gli esperti dei tre gruppi, che ora stanno lavorando sulla sintesi finale in via di pubblicazione a fine ottobre, sono passati anche sotto le forche caudine dei delegati governativi, a cui hanno dovuto sottoporre tutto il loro lavoro, punto per punto e frase per frase. John Broome, professore di Filosofia morale a Oxford e uno dei due filosofi presenti nel terzo gruppo di lavoro dell’Ipcc, descrive bene questo sfinimento nel suo blog: “L’impostazione della sessione di approvazione è davvero stravagante. Ogni singola frase della sintesi redatta per i politici dev’essere approvata o respinta dai delegati governativi. Nella sessione plenaria, la bozza viene proiettata su un grande schermo frase per frase. Il presidente riceve le proposte di emendamento e le sottopone agli autori. Ogni frase viene approvata solo se rispecchia il contenuto del rapporto e se c’è un consenso fra tutti i delegati. Quando il consenso su quella frase è stato raggiunto, il presidente batte un colpo con un martello, la frase s’illumina in verde e si passa alla successiva”.

Si può immaginare la difficoltà di raggiungere un consenso fra l’impostazione scientifica degli autori e l’interesse politico dei delegati. Nelle fasi finali del processo, ad esempio, un gruppo di Paesi guidati dall’Arabia Saudita ha impedito la pubblicazione di una tabella che metteva in evidenza le emissioni delle diverse fasce sociali (ricchi, classe media, ecc) all’interno di ogni singolo Stato. I Paesi europei si sono opposti alla soppressione dei dati, ma dopo molte ore di discussione la posizione saudita si è imposta, sulla base del principio che per sopprimere una frase basta un delegato contrario. In complesso, dalle testimonianze risulta chiaro che i testi finali hanno solo una pallida somiglianza con il punto di partenza e spesso consistono in una serie di concetti sconnessi e molto annacquati.

Malgrado ciò, le conclusioni del terzo gruppo di lavoro sono univoche. Primo: “In assenza di nuovi interventi di mitigazione, le proiezioni suggeriscono un aumento della temperatura media globale da 3,7° a 4,8°C rispetto ai livelli pre-industriali”. Secondo: “L’attuale traiettoria delle emissioni globali non è coerente con l’obiettivo di contenere il riscaldamento globale entro i 2° C”. Terzo: “Gli impegni presi a Cancùn (nel 2010, ndr) sono complessivamente coerenti con uno scenario economicamente realistico, che darebbe una buona probabilità (66-100%) di contenere il riscaldamento globale entro i 3°C rispetto ai livelli pre-industriali”. Su questa base si va a Parigi, camminando su un filo.