Conviene il K 0?

Chilometro zero e filiera corta ormai sono concetti consolidati e per molti consumatori sinonimi di sostenibilità. Ma consumare prodotti locali è davvero un vantaggio? Diversi studi internazionali dimostrano che fare la spesa a chilometro zero sostiene l’agricoltura locale, ma non riduce l’impronta ambientale del cibo che ci mettiamo nel piatto, al contrario, in molti casi l’aumenta. Le ragioni sono ovvie: comprare un pomodoro locale in Svezia costa sicuramente di più che importarlo dall’Italia, perché i costi d’illuminazione e riscaldamento delle serre superano di gran lunga i costi del trasporto. Basta pensarci e ci si arriva anche a intuito, ma comunque esiste uno studio dettagliato di Annika Carlsson-Kanyama, che lo ha già dimostrato una quindicina di anni fa. Risultati simili sono stati scoperti paragonando i pomodori coltivati in Inghilterra con quelli importati dalla Spagna.

In pratica, questo significa che la spesa a chilometro zero non ha nessun senso? Non esattamente. Ma se comprando prodotti locali l’obiettivo è ridurre l’impronta ambientale dei propri consumi alimentari, allora la scelta migliore è cercare di mangiare solo frutta e verdura di stagione, altrimenti si rischia di far peggio. E’ famoso, ad esempio, lo studio di due scienziati tedeschi dell’Università di Giessen, che hanno analizzato il dispendio energetico totale per produrre e trasportare carne di agnello sulle tavole dei tedeschi, mettendo a confronto un agnello allevato e macellato in Nuova Zelanda con uno nato, cresciuto, macellato e consumato in loco. Risultato: serve meno energia per produrre carne d’agnello in una grande fattoria neozelandese e portarla via nave ad Amburgo, che produrla in una piccola fattoria in Germania.

La questione più importante da ricordare sulle “miglia alimentari”, cioè la strada percorsa da un alimento per arrivare sulla nostra tavola, è che sono solo una piccola parte della storia. L’impronta ambientale di un cibo è dominata dalle emissioni della produzione e il trasporto rappresenta meno di un decimo delle emissioni totali fino al punto vendita. Esiste invece una correlazione tra le dimensioni dell’azienda e il consumo energetico: aziende piccole sono meno efficienti dal punto di vista energetico e questo si riflette sul prodotto finale.

Diversi studi hanno dimostrato questo concetto, in particolare un’analisi del 2008 di Christopher Weber e Scott Matthews della Carnegie Mellon University, concentrato sugli Stati Uniti. La loro analisi ha appurato che l’83% delle emissioni avviene a livello di produzione, il 5% deriva dalla vendita all’ingrosso e al dettaglio e l’11% dal trasporto. Ma solo il 4% delle emissioni totali derivano dal tragitto fra grossista e dettagliante, quello che la gente di solito intende quando pensa alle “miglia alimentari”.

In generale, quindi, la distanza percorsa dal cibo nell’”ultimo miglio” non è molto rilevante per l’obiettivo di ridurre l’impronta ambientale dei nostri consumi alimentari.

Ma se proprio si vuole parlare di “miglia alimentari”, bisonga tener presente che le miglia non sono tutte uguali. Il cibo che vola, ad esempio, è molto più antiecologico del cibo che va per mare o per terra. Nel Regno Unito, ad esempio, solo l’1% del cibo arriva in aereo, ma questo è responsabile dell’11% delle emissioni complessive. In base ai dati della Defra, il ministero britannico dell’ambiente e dell’agricoltura, si può dedurre che il cibo mandato via aereo può generare cento volte le emissioni di un cibo che viaggia via nave. Se un inglese mangia una banana arrivata via nave dalla Colombia le sue emissioni sono relativamente modeste, ma se mangia un avocado mandato via aereo dal Messico, sono enormi. Ma anche se il cibo arriva da lontano via aereo, può ancora avere una’impronta ambientale più ridotta rispetto a un alimento prodotto vicino a casa.  più sono delle differenze importanti. Questo dipende dal fatto che in Africa, ad esempio, le coltivazioni vengono fatte prevalentamente a mano e quindi hanno emissioni bassissime rispetto all’agricoltura europea, compensando ampiamente le emissioni del trasporto aereo.

Ecco perché non si può considerare il chilometro zero come una garanzia di sostenibilità.