Chi non ha mai preso un taxi con Uber o affittato un alloggio con AirBnB? I due campioni più noti dell’economia collaborativa crescono in tutto il mondo e valgono ormai più di colossi consolidati come Delta Airlines. Ma sono solo la punta di un iceberg. Per chi vive negli Stati Uniti e nelle grandi capitali europee, è normale risolvere le pulizie domestiche con Homejoy o con Handy, la spesa quotidiana con Instacart, il bucato con Washio, mandare un mazzo di fiori con BloomThat e un regalo con TaskRabbit, ordinare la cena da SpoonRocket, trovare la babysitter da Yoopies e da Fancy Hands l’assistente giusto per cambiare contratto telefonico o prenotare un volo.
Lo stesso modello si va diffondendo nei servizi professionali. Collaboratori on-demand, che producono programmi, grafica o contenuti pubblicitari, si trovano con un click su piattaforme come Upwork e Freelancer. Tongal mette a disposizione dei clienti il suo network di 40mila produttori di video e Axiom i suoi 1.500 avvocati. Medicast applica lo schema del dottore convocato via app ai servizi sanitari nelle aree di Miami, Los Angeles e San Diego. Eden McCallum, fondata a Londra nel 2000, offre servizi di consulenza on-demand pescando nel suo network di 500 consulenti. Il Business Talent Group, basato a Los Angeles, offre persino top manager on-demand, per affrontare problemi specifici senza doverne assumere uno in pianta stabile. Le piattaforme di creativi aggiungono altre modalità, come le aste per premiare un’idea vincente. InnoCentive ha applicato questo sistema alla ricerca e sviluppo, trasformando le necessità delle aziende in domande specifiche e premiando la risposta migliore.
Solo cinque anni fa,era difficile immaginare la nascita di un mercato definito dai servizi on-demand. Ora questo mercato è maturo e produce ricchezza, oltre che posti di lavoro. Negli ultimi cinque anni, l’economia on demand ha messo a lavorare quasi tre milioni di persone solo negli Usa, il che rappresenta il 20 per cento della forza lavoro americana e il 38 per cento dei nuovi posti di lavoro a stelle e strisce. Un’analisi dell’American Action Forum, condotta dagli economisti Will Reinhart e Ben Gitis, ha appurato che i posti di lavoro in questo settore sono aumentati del 14,4% dal 2002 al 2014, mentre il resto dell’occupazione nello stesso lasso di tempo è aumentata del 7,2 per cento.
La crescente diffusione e potenza degli smartphone facilita a tal punto i contatti diretti fra clienti e lavoratori, da rendere le piattaforme online di smistamento degli ordini quasi più pratiche degli aggregatori di lavoro tradizionali, cioè le aziende. Per gli economisti, la definizione di azienda è largamente basata sulla teoria di Ronald Coase, in base alla quale un’impresa ha senso quando il costo di affidare i compiti internamente è inferiore al costo di procurarsi gli stessi servizi sul mercato. Ora che ciascuno di noi porta in tasca un computer che lo colloca nello spazio e lo connette con il mondo, il costo di trovare sul mercato un lavoratore disponibile ad assolvere bene singoli compiti si è notevolmente ridotto.
Le conseguenze sono vaste e tutte piuttosto spiacevoli per le aziende a cui AirBnb, Uber o Eden McCallum fanno concorrenza, dagli alberghi ai tassisti, passando per i colossi della consulenza come McKinsey.Quali sono, invece, le conseguenze per i lavoratori? Qui i pareri si dividono. Il 25 giugno i tassisti hanno paralizzato un’ennesima volta Parigi per protesta contro Uber e il 29 giugno la polizia francese ha arrestato due manager della compagnia per “attività illecita”. Un piccolo inconveniente per Uber, che ormai è presente in oltre 300 città, alcune ben più grandi e lucrose di Parigi. Per ora i tentativi di annichilimento sembrano tanto appassionati quanto infruttuosi. Le resistenze, però, si fanno sentire anche dall’altra parte dell’Atlantico. Il dipartimento californiano del Lavoro ha appena condannato Uber a rifondere 4.152 dollari a Barbara Ann Berwick, che accusa la società di averla sfruttata come una dipendente mascherata, proprio nella sua città natale di San Francisco. Uber è ricorsa in appello, ma è chiaro che se la causa finisse male, questa sentenza minerebbe alla radice il suo modello di business, basato su oltre 160mila collaboratori indipendenti (solo negli Usa) e senza pretese di assunzione. Le resistenze crescono anche a livello politico: il 13 luglio, Hillary Clinton ha sparato addosso all’economia on demand con toni dell’altro secolo: «Colpirò i padroni che sfruttano i lavoratori e li registrano tendenziosamente come liberi professionisti», ha tuonato, mettendo le nuove piattaforme di aggregazione del lavoro sullo stesso piano del caporalato.
D’altra parte, parlando con chi ci lavora dentro, questo mondo non sembra poi così nero. «L’aspetto più attraente per me è la flessibilità e il fatto che non devo rispondere a un capo: dal mio telefono mi arrivano proposte di lavoro che posso accettare o respingere, sono io che decido», spiega Sara, una tassista di Uber a San Francisco. Stesso discorso per Alberto, che ha trasformato casa sua in un ristorante improvvisato con EatWith, a Barcellona. La libertà di scelta e il controllo del proprio tempo sembrano centrali, per chi conduce questo stile di vita. In più, c’è la netta sensazione di essere premiati se si lavora bene. I rapporti che si instaurano con i clienti sono blandi, ma possono diventare più stretti e molto remunerativi se il lavoro viene apprezzato. L’individuo rimpiazza così l’istituzione e l’uomo-azienda appare una specie in via di estinzione.