Quel che resta della sharing economy

L’economia collaborativa è già lontana anni luce dalle sue origini romantiche, quando gli autisti di Lyft offrivano davvero “un passaggio sull’auto di un amico” e cercando un alloggio con AirBnb si finiva su un materasso gonfiabile nella stanza degli ospiti. Oggi AirBnb è diventato un canale come un altro per l’affitto facile di case vuote, spesso gestite da un agente immobiliare, e si cominciano a vedere casi in cui le grandi corporation cercano di fermare la concorrenza ingoiando una start-up, com’è successo a Zipcar, recentemente acquisita da Avis.
Ma esiste ancora chi considera la sharing economy una forma di “comunismo digitale” e si pone il problema della compatibilità fra condivisione e capitalismo. Antonin Léonard, fondatore del think-tank parigino Ouishare, ha piazzato il problema al centro della Ouishare Fest, intitolata quest’anno “Lost in Transition?” con evidente riferimento all’anima collaborativa del movimento, che si va perdendo.
Grande kermesse annuale della sharing community internazionale, la convention ha messo a confronto le due tendenze, quella di chi è impegnato sul fronte degli scambi collaborativi, come il teorico belga del “peer to peer” Michel Bauwens, e quella di chi è ormai lanciato nella scalata alle quotazioni di Borsa, come Lisa Gansky, fondatrice di Ofoto.

“Abbiamo preferito non prendere posizione – spiega Antonin – ma è chiaro che vorremmo vedere più progresso sociale e più uguaglianza nel mondo e ci domandiamo in che misura l’economia collaborativa possa contribuire a farci procedere in questa direzione”. Jeremiah Owyang, fondatore di Crowd Companies e acuto analista dell’economia on demand, che ha racchiuso nell’”alveare” pubblicato in questa pagina, ha fatto notare nella stessa occasione che il grosso della sharing economy è nelle mani dell’1 per cento più ricco degli imprenditori della Silicon Valley. Dalle speranze di comunismo digitale, quindi, rischia di nascere un feudalesimo digitale.

Non mancano, però, le sacche di resistenza, incentrate soprattutto su piattaforme no-profit, come l’inglese Echo (Echonomy of Hours), leader fra le banche del tempo, come la rete di ospitalità francese BeWelcome o il Banco Alimentare italiano. Zopa, insieme ad altri siti di prestiti peer-to-peer, appartiene a questa categoria. Poi ci sono i servizi pubblici in comune, come il bike-sharing parigino Velib’. Crescono i network basati sugli scambi di beni che il proprietario non vuole più, come Freecycle o FreeSharing e LeftoverSwap mette in contatto chi ha avanzi di cibo da cedere con chi ne ha bisogno. La condivisione delle idee e dei progetti prospera in format collaborativi come BarCamp o FooCamp e l’istruzione peer-to-peer nelle classi virtuali di Skillshare e Instructables. Fon mette in comune le connessioni wifi e Mosaic democratizza il fotovoltaico, consentendo a chiunque di investire pochi dollari in cambio di energia pulita.

È un paesaggio più frammentato, che non attira investimenti miliardari e non fa botti a Wall Street, ma cresce e si sviluppa rapidamente, di pari passo con le evoluzioni tecnologiche, che portano anche i senzatetto ad avere un cellulare in tasca. Al di là della tecnologia, è un movimento che si basa su una grande trasformazione sociale ed economica, oltre che culturale. Un numero crescente di persone vive vite meno strutturate, fa lavori meno garantiti e tende di più alla condivisione. Lo scetticismo nei confronti delle grandi corporation aumenta, mentre le piattaforme collaborative ispirano quella fiducia che ci permette di consegnare a un perfetto sconosciuto le chiavi di casa o della macchina. E di condividere con lui le nostre conoscenze e i nostri progetti.