Anche le corporations scendono in campo con i tagli

Ikea conta di produrre tanta energia rinnovabile quanta quella che consuma entro il 2020. Johnson & Johnson punta a tagliare l’80 per cento delle sue emissioni di gas a effetto serra e di alimentare tutti i suoi stabilimenti con energia da fonti rinnovabili entro il 2050. Dell ha in programma di tagliare le sue emissioni del 50% entro il 2020 e di aumentare del 50% entro quella data l’utilizzo interno di energia da fonti rinnovabili rispetto ai livelli del 2012. Siemens promette di ridurre la sua impronta fossile del 50 per cento entro il 2020 e di ridurla a zero entro il 2030. Una parte del mondo delle grandi aziende ha capito che la lotta al riscaldamento del clima può essere una grande occasione di business, tanto che i programmi messi in campo da 140 grandi multinazionali aderenti alla Low Carbon Technology Partnerships Initiative potrebbero portare da soli, in base a uno studio di PricewaterhouseCoopers, il 65% del taglio di emissioni necessario per fermare il riscaldamento globale entro la soglia critica di 2°C dai livelli preindustriali, muovendo 10mila miliardi di dollari di investimenti e creando 45 milioni di posti di lavoro da qui al 2030.

Impegni volontari e inviti all’azione, più o meno spinti, arrivano alle Nazioni Unite da quasi tutte le multinazionali, che si riuniranno nel Sustainable Innovation Forum, ai margini dei lavori della Cop21. L’ultimo contributo alla decarbonizzazione dell’industria mondiale è venuto da 81 multinazionali americane, che hanno deciso di unirsi al presidente Barack Obama nella lotta contro il riscaldamento del clima. Con la firma alla Casa Bianca dell’American Business Act on Climate Pledge, colossi come Apple, Coca-Cola o General Electric si sono impegnati a ridurre le proprie emissioni almeno del 50% e a utilizzare soltanto energia da fonti rinnovabili da qui al 2030, sostenendo così gli impegni presi dal governo americano in vista della Cop21.

Le aziende firmatarie generano 3.000 miliardi di dollari di ricavi all’anno, danno lavoro a nove milioni di persone e hanno una capitalizzazione complessiva di oltre 5.000 miliardi di dollari. Se rispetteranno gli impegni presi con il presidente, toglieranno dall’atmosfera 6 milioni di tonnellate di CO2 di emissioni all’anno entro il 2030, consentendo così agli Stati Uniti di tagliare il 28% delle proprie emissioni di gas a effetto serra entro il 2025. La speranza dell’amministrazione Obama è che il supporto di queste aziende aumenti le probabilità che i delegati alla Cop21 possano raggiungere un’intesa a Parigi su un tema che continua a dividere la classe politica americana.

Le grandi assenti da questi impegni sono le compagnie petrolifere americane, come ExxonMobil e Chevron, che hanno declinato qualsiasi invito a unirsi allo sforzo globale, come del resto tutte le compagnie petrolifere statali dei Paesi produttori, a parte la saudita Saudi Aramco e la messicana Pemex. Totalmente assente anche il settore carbonifero, frustrato dalle accuse di essere il principale colpevole del riscaldamento globale. Più sensibili, invece, dieci fra le principali compagnie petrolifere mondiali: le britanniche Bg Group e Bp, l’Eni, la messicana Pemex, l’indiana Reliance Industries, la spagnola Repsol, la saudita Saudi Aramco, l’anglo-olandese Shell, la norvegese Statoil e la francese Total, che hanno annunciato una strategia comune per il taglio delle emissioni di CO2 e di metano, i principali gas serra. E’ un impegno difficile da perseguire per delle società che vivono di petrolio e gas, cioè proprio dei prodotti che il mondo dovrebbe smettere di consumare, per evitare di accumulare altra CO2 in atmosfera. L’unica prospettiva di business, per queste dieci compagnie, sta nei vantaggi offerti dal gas come sostituto del carbone, in termini di emissioni. Ma è una prospettiva di corto respiro.

Non a caso le reazioni da parte di chi sta preparando la Cop21 sono state scettiche. Laurence Tubiana, inviata del governo francese per il clima, ha dato il benvenuto all’impegno delle compagine petrolifere, ma ha fatto notare che i loro attuali piani di business non sono coerenti con l’obiettivo internazionale di contenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi dai livelli preindustriali. “La domanda su che tipo di diversificazione del loro business abbiano in mente a lungo termine è ancora aperta”, ha precisato Tubiana. Le dieci compagnie petrolifere firmatarie fanno parte anche della Carbon Pricing Leadership Coalition, un’alleanza globale di 17 governi (fra cui quello italiano) e una sessantina di aziende, che chiedono di fissare un prezzo globale della CO2 – proposta fino ad ora esclusa dai negoziati per la Cop21 – in modo da dare una base chiara e facilmente quantificabile al costo delle emissioni. Dare un prezzo globale alla CO2 implicherebbe naturalmente un notevole danno per tutte le fonti energetiche concorrenti, come il carbone, che producono livelli molto più alti di emissioni.