La civiltà è nata nell’Olocene, ricordava Max Frisch trent’anni fa in un suo famoso racconto. L’Olocene è stato un buon momento per l’umanità, ma nel corso dell’ultimo secolo alcuni dei parametri che hanno caratterizzato quest’era così ospitale sono cambiati, mettendo a rischio il nostro benessere, perché non sappiamo se saremo in grado di prosperare in condizioni diverse da quelle che hanno accompagnato la nostra vita negli ultimi 12mila anni.
Malgrado quest’incertezza, l’umanità continua a varcare nuovi limiti sulla strada del depauperamento estremo del pianeta. Il boom demografico ed economico degli ultimi sessant’anni, nel quale contrariamente alle apparenze ancora ci troviamo, ha reso più veloce il processo di superamento dei confini planetari. L’ultimo strappo segnalato dalla scienza è nell’uso del suolo, per colpa della deforestazione. Nel 2009 un gruppo di 28 scienziati mise a punto, con la collaborazione dello Stockholm Resilience Center, uno schema utile a monitorare i segni vitali del pianeta, arrivando a quelli che sono stati definiti i 9 limiti planetari, all’interno dei quali l’umanità può continuare a prosperare. Tre di questi limiti erano già stati superati: troppa anidride carbonica rilasciata in atmosfera, troppo azoto rimosso dall’atmosfera per usarlo nel suolo come fertilizzante e la biodiversità in declino troppo rapido. Ora gli stessi scienziati hanno aggiornato la triste conta, aggiungendo un altro limite varcato: abbiamo tagliato troppi alberi per convertire il territorio ad uso agricolo.
Non si tratta di problemi futuri, ma attuali. La rapidità dei cambiamenti, sostengono gli scienziati, risulta evidente in tutti i settori, a partire dai limiti già superati. La concentrazione di CO2 in atmosfera, che già nel 2009 aveva superato il limite di 350 parti per milione, sotto il quale eravamo al sicuro, oggi è arrivata a 400 parti per milione, con le note conseguenze sul riscaldamento del clima. La quantità di azoto sfruttata in agricoltura, che non dovrebbe superare i 35 milioni di tonnellate all’anno, era già arrivata a 121 milioni di tonnellate nel 2009 e ora siamo ben oltre. Il tasso annuo di estinzione delle specie considerato tollerabile, che è 10 per milione di specie, era già stato superato nel 2009 e ora siamo a oltre 100. Il ritmo della deforestazione sta rallentando, ma con 52mila chilometri quadrati di alberi abbattuti all’anno, c’è poco da rallegrarsi. Questo è il quarto limite che gli scienziati hanno considerato superato nel nuovo studio. Ma non basta, perché siamo pericolosamente vicini a infrangerne altri, come il buco dell’ozono, il tasso annuo di consumo di acqua dolce per chilometro quadrato o il livello di acidificazione degli oceani. Sugli altri due limiti planetari, la concentrazione di aerosol nell’atmosfera attraverso l’inquinamento da gas e l’inquinamento chimico, riferito in particolare a nuovi inquinanti organici e radioattivi, non sappiamo abbastanza per definirne il limite di sicurezza.
Abbiamo un unico punto a nostro favore: grazie ai progressi della scienza, siamo la prima generazione informata del fatto che sta mettendo in pericolo la stabilità del pianeta e la sua capacità di reggere lo sviluppo umano come lo conosciamo oggi. Ma gli avvertimenti degli scienziati non bastano a mettere in moto una reazione positiva. I climatologi hanno un bel dire che il livello dei mari sta già salendo e New York sarà sott’acqua entro la fine del secolo se non diamo un taglio alle emissioni di anidride carbonica. L’umanità da quest’orecchio non ci sente. In teoria, nessuno manda al diavolo gli scienziati. Ogni gruppo culturale, anche il più negazionista, crede che le sue convinzioni siano coerenti con le conclusioni raggiunte dalla scienza, solo che tende a selezionare un pool di esperti di riferimento tra quelli con posizioni contigue alla sua e vede tutti gli altri come fonti inaffidabili. In questo modo, scegliendo pseudo-esperti à la carte, tutti si sentono legittimati nelle proprie convinzioni.
Per questa ragione, l’accordo raggiunto alla Cop21 di Parigi va considerato un passo importante nella giusta direzione. Dopo vent’anni di mediazione Onu, il testo adottato dai 195 Paesi che hanno partecipato alla conferenza pone l’obiettivo di fermare il riscaldamento “ben al di sotto dei 2°C” dai livelli pre-industriali, ma cita anche la volontà di contenerlo entro 1,5°C e impegna per la prima volta i Paesi in via di sviluppo al taglio delle emissioni, pur non prevedendo obiettivi quantificati. I negoziatori sul clima hanno preferito non imporre dei target di riduzione top-down, come si era tentato di fare a Copenhagen nel 2009, perché non siamo più ai tempi del Protocollo di Kyoto, quando il taglio delle emissioni interessava solo una trentina di Paesi industrializzati. La procedura bottom-up ha il vantaggio di coinvolgere quasi tutti i Paesi, compresi gli emergenti, che sono diventati i principali responsabili del riscaldamento del clima, ma ha l’evidente svantaggio di non centrare subito il target desiderato dei 2 gradi. Gli impegni volontari presentati a Parigi dalle varie nazioni puntano piuttosto a un riscaldamento globale di 2,7°C in più rispetto ai livelli preindustriali, ben oltre la soglia di sicurezza, e solo il meccanismo di revisione degli obiettivi ogni 5 anni previsto dall’accordo riuscirà ad alzare progressivamente l’asticella dei tagli.
Poche nazioni, fra cui l’Unione Europea e gli Stati Uniti, hanno specificato obiettivi di riduzione in termini assoluti, mentre la maggioranza propone target relativi a uno scenario business as usual, oppure basati sulle emissioni in rapporto al Pil. Altre hanno stabilito un determinato anno entro il quale le emissioni dovranno raggiungere il loro picco. La Cina, ad esempio, ormai saldamente al primo posto fra i Paesi che producono più emissioni a effetto serra, nel suo piano non prevede un target di riduzione, ma un obiettivo di picco, fissato al 2030. Il che significa che da qui ad allora le sue emissioni continueranno ad aumentare. A livello globale, il tasso di crescita delle emissioni per il periodo 2010-2030 sarà nettamente inferiore rispetto al ventennio 1990-2010, se si applicheranno i piani presentati. Ma con i nuovi impegni i gas serra continueranno a crescere: al 2025 del 40% rispetto al 1990 e al 2030 del 45%. Questo significa semplicemente spingere in avanti il momento in cui la curva delle emissioni dovrà cominciare a scendere e a quel punto, per evitare le conseguenze più disastrose dell’effetto serra, la discesa dovrà essere ben più precipitosa, con tagli veramente drastici. Ma già il fatto di aver messo in moto il meccanismo per modificare i nostri modelli di sviluppo è un passo importante.
Non che negli ultimi anni l’umanità sia stata con le mani in mano. Le tecnologie pulite, in tutte le loro declinazioni, dall’energia all’agricoltura, dall’edilizia all’auto elettrica, hanno attirato miliardi di investimenti e aperto la strada a un nuovo modello di sviluppo decarbonizzato, tanto che l’anno scorso, per la prima volta dall’invenzione della macchina a vapore, le due linee della crescita economica e dei consumi di combustibili fossili hanno cominciato a discostarsi: l’economia globale ha continuato a crescere del 3% o poco più, mentre i consumi di idrocarburi sono rimasti piatti e di conseguenza anche le emissioni di gas a effetto serra. Il disaccoppiamento delle due linee sarà la chiave di volta per mantenere il riscaldamento del pianeta al di sotto dei 2 gradi rispetto all’era pre-industriale. Alla radice del disaccoppiamento c’è l’innovazione. Senza le nuove tecnologie per l’energia pulita e per l’efficienza, non ci sarà decarbonizzazione dell’economia. Solo con un deciso aumento degli investimenti nella ricerca energetica il mondo potrà ospitare degnamente, senza andare a fuoco, altri due miliardi di individui, che si aggiungeranno a noi nei prossimi trent’anni.
In un decennio la potenza installata di fonti rinnovabili è cresciuta dell’85%, superando i 1.700 gigawatt di potenza e oggi le fonti pulite contano per oltre metà della nuova potenza installata annualmente. Ma non basta ancora. Per mantenere il riscaldamento del pianeta entro la soglia critica dei 2 gradi, il contributo delle energie pulite dovrebbe perlomeno raddoppiare, secondo i calcoli dell’International Renewable Energy Agency. Negli ultimi 40 anni, la popolazione mondiale è passata da 4 a 7 miliardi di persone e la domanda elettrica è cresciuta del 250%. Da qui al 2030 il rapporto stima una crescita di un altro miliardo di persone, con un aumento del fabbisogno elettrico globale del 70%. Questo nuovo fabbisogno, sostiene Irena, dovrebbe e potrebbe essere soddisfatto in larga misura con le fonti rinnovabili, in misura circa doppia di quel che si sta già facendo.
La chiave di volta di questa crescita, per ammissione di tutti gli esperti ormai, sarà l’energia solare. In base a un rapporto abbastanza rivoluzionario dell’International Energy Agency, nel 2050 il solare peserà per la fetta più grande del mix elettrico mondiale, superando fossili, eolico, idroelettrico e nucleare. Il fotovoltaico infatti potrebbe contribuire per il 16% della domanda elettrica mondiale, mentre un altro 11% potrebbe venire dal solare a concentrazione. Secondo la Iea, che di norma è un’agenzia molto conservatrice, la potenza fotovoltaica cumulativa installata a livello globale supererà i 400 gigawatt nel 2020, dai 140 gigawatt di oggi. Sarà la Cina a guidare la crescita, con 110 gigawatt di nuova potenza installata.
L’ingresso della Cina sulla scena dell’energia pulita ha consentito enormi economie di scala nella produzione di celle solari e turbine eoliche, che hanno contribuito in maniera determinante alla riduzione dei prezzi e alla diffusione di massa di queste tecnologie. Ma investire nella crescita degli impianti non va sempre di pari passo con lo sviluppo della ricerca. Mentre gli investimenti nelle fonti rinnovabili nel 2014 sono aumentati quasi del 17% rispetto all’anno precedente, superando i 270 miliardi di dollari, nell’ultimo quinquennio gli investimenti in ricerca sulle tecnologie pulite si sono mossi poco e oggi non arrivano a 12 miliardi di dollari. Questi numeri andrebbero triplicati, per l’International Energy Agency, se vogliamo mantenere il riscaldamento globale entro il limite dei 2 gradi. L’agenzia sollecita soprattutto i governi ad aumentare la potenza di fuoco, perché gli investimenti pubblici fanno sempre da leva per quelli privati, indirizzando così il flusso complessivo delle risorse.
La potenza degli investimenti governativi è dimostrata da una storia di successo come quella della Cina, diventata in pochi anni leader mondiale delle fonti rinnovabili, con un potente sforzo di ricerca, sostenuto dal governo centrale. Non a caso le istituzioni cinesi arrivano sempre più spesso in cima alle graduatorie dell’innovazione energetica, come nell’approfondito studio condotto da Kic InnoEnergy, il braccio energetico dell’European Institute of Innovation and Technology. In questo studio, non solo l’Accademia Cinese delle Scienze è risultata l’istituzione scientifica più avanzata del mondo nel settore preso in esame – composto da vento, maree, solare fotovoltaico, solare termico, edifici intelligenti, smart cities, smart grids, accumuli, convergenza delle fonti rinnovabili e tecnologie per gli idrocarburi puliti – ma gli istituti cinesi occupano da soli tutto il podio della ricerca pubblica globale, con la pechinese Tsinghua University e la Fudan University di Shanghai. In complesso, sui 15 istituti di ricerca pubblica più avanzati del mondo, 9 sarebbero cinesi, 3 europei (il tedesco Fraunhofer e i francesi Cea e Cnrs) e 2 americani (University of California e US Department of Energy). Nell’industria, invece, la musica cambia completamente. Tra le top-15 della ricerca privata non ci sono società cinesi, ma 6 giapponesi, 3 coreane, 5 europee (Siemens, Schneider Electric, Alstom, Shell e Abb) e una sola americana, General Electric. In ogni caso, l’Asia domina ormai la scena mondiale della scienza sostenibile.
L’egemonia dell’Oriente emerge anche dallo sviluppo delle megalopoli, centri trainanti del futuro, che nel 2030 saranno quasi tutte asiatiche, in base al rapporto World Urbanization Trends dell’Onu. Città del Messico, oggi quarta megalopoli mondiale con 20,8 milioni di abitanti, dietro a Tokyo, Delhi e Shanghai, nella classifica del 2030 finisce al decimo posto, rimanendo l’unica esponente di un continente diverso dall’Asia o dall’Africa nella top ten. Balzano in su, invece, Mumbai al quarto posto con 27,8 milioni di abitanti, Pechino con 27,7 milioni, Dacca con 27,4 milioni, Karachi con 24,8 milioni, Il Cairo con 24,5 milioni e Lagos con 24,2 milioni. Il mutamento di prospettiva rispecchia i vasti spostamenti di popolazione in corso in Asia e la potenza economica crescente di questo continente in pieno sviluppo.
In questo movimento si rispecchiano le differenze di approccio nei confronti della crescita urbana sostenibile. La visione europea e americana della smart city è dominata dalla preoccupazione di rendere intelligenti i grandi centri storici, aumentando la fluidità di trasporti e comunicazioni, del traffico, dello smaltimento dei rifiuti, della distribuzione di energia e acqua nelle città che già esistono e rischiano di diventare troppo intasate. Nei Paesi emergenti, invece, si tende a costruire nuovi agglomerati sostenibili da greenfield, intere città pianificate apposta per tagliare al massimo le emissioni, grazie alle tecnologie più innovative per l’efficienza energetica. Due strade diverse e spesso antitetiche verso un obiettivo comune: risparmiare al massimo le risorse sempre più scarse.
Le differenze fra i due modelli assomigliano un po’ al diverso approccio alle tecnologie digitali di un anziano già passato attraverso altre modalità di comunicazione e di un nativo digitale. Mentre Londra sventra tutto il sottosuolo del centro cittadino, da Paddington a Whitechapel, per far spazio alla nuova ferrovia Crossrail e rendere la vita più facile a un altro milione e mezzo di persone, che si troveranno a portata di treno dal Big Ben, in India si stanno costruendo 24 nuove città verdi lungo la linea ferroviaria ad alta velocità fra Delhi e Mumbai. Stoccolma e Milano si preoccupano di decongestionare i centri cittadini intasati, imponendo un biglietto d’ingresso che limiti l’accesso ai veicoli più inquinanti, ma intanto le famose pedonalizzazioni, che nelle grandi città del mondo industrializzato hanno scatenato per decenni dispute feroci, sono la regola in vaste aree dei centri urbani nati dal nulla. A Tianjin Eco-City, una città verde che dovrebbe ospitare 250mila persone entro la fine di questo decennio, in via di realizzazione a 150 chilometri da Pechino, è previsto l’utilizzo dei trasporti pubblici, della bicicletta o dei piedi per il 90% degli spostamenti. La nuova città punta a coprire il 20% dei consumi energetici da fonti rinnovabili e al riciclo del 60% dei rifiuti.
A Songdo, uno dei progetti più ambiziosi, che sta sorgendo grazie a una collaborazione nippo-sino-coreana a 60 chilometri da Seul, con un investimento di 40 miliardi di dollari, i cittadini non dovranno mai camminare più di dieci minuti per raggiungere i trasporti pubblici, un parco o dei negozi e i parcheggi saranno molto cari per disincentivare l’uso dei veicoli privati, con un 10% di posti gratuiti riservati alle auto elettriche. Fra i caratteri distintivi della città ci sarà una striscia verde di un chilometro quadrato, sul modello di Central Park. Analoghe ambizioni si leggono nella progettazione degli edifici, che a Songdo sono all’80% certificati Leed e puntano a tagliare del 20% i consumi di energia rispetto alle città del vecchio mondo di dimensioni analoghe. Per l’ottimizzazione del sistema, la soluzione chiave è la connettività. Reti intelligenti e sensori regoleranno l’illuminazione pubblica e la gestione del traffico, mentre il fabbisogno domestico verrà modulato attraverso smart grid e contatori intelligenti, capaci d’incrociare domanda e offerta elettrica in maniera efficiente. La pianificazione urbana è attenta soprattutto a non sprecare spazio, per limitare la necessità di lunghi trasferimenti, antiecologici e antieconomici. Spostare i trasporti dalle auto agli ascensori è una delle parole d’ordine delle nuove città, che tendono a svilupparsi molto in verticale.
La prossimità crea vivibilità, socialità, innovazione. Le metropoli americane con un alto grado di accessibilità pedonale, come Manhattan e San Francisco, presentano un Pil pro capite superiore del 38%, in media, rispetto alle città dominate dal traffico automobilistico, secondo uno studio realizzato dalla George Washington University School of Business insieme a Locus, un programma di Smart Growth America. Lo studio ha messo in evidenza che gli abitanti delle aree metropolitane più compatte hanno costi di alloggio e trasporti combinati inferiori agli altri e una mobilità economica superiore, vivono più a lungo e sono più in salute, con meno casi di obesità e di incidenti d’auto mortali. A dispetto delle apparenze, quindi, vivere in centro è più sano, più sicuro e più conveniente che abitare in periferia.
Le comunità più compatte e meno asfaltate, del resto, sono anche le più adattabili agli eventi climatici estremi, che diventeranno sempre più intensi. “Le città si adattano o se ne vanno”, è stata la reazione all’uragano Sandy dell’allora sindaco di New York, Michael Bloomberg, dopo aver deciso di vietare la ricostruzione di centinaia di case spazzate via e di ripristinare le vaste aree umide che erano state bonificate lungo 500 miglia di coste. Il tema dell’adattabilità è da anni al centro del dibattito sui cambiamenti climatici e ha tenuto banco anche alla Cop21 di Parigi. Che fare, per limitare i danni? La risposta più sintetica è imparare dall’esperienza. “Negli ultimi cinquant’anni, i danni causati dai disastri naturali sono cresciuti esponenzialmente, non solo per i cambiamenti climatici, ma anche per l’aumento della popolazione globale e delle sue attività economiche”, sostiene il climatologo americano Roger Pielke. Là dove prima un’onda anomala si abbatteva su una costa deserta, senza fare danni, oggi magari spazza via un villaggio, con tutte le conseguenze del caso. “Ma non bisogna rassegnarsi all’idea che le emergenze aumentino di pari passo con le attività umane”, afferma Pielke. E porta l’esempio dell’aviazione civile: “Nell’ultimo decennio, il numero di voli aerei è quadruplicato, ma gli incidenti sono rimasti costanti, o addirittura sono calati”. Qual è la differenza? Dopo un disastro naturale, l’istinto porta a ricostruire tutto com’era prima. Dopo un disastro aereo, invece, la prima preoccupazione è cambiare la struttura del velivolo, nelle parti che potrebbero essere all’origine del disastro. Chi ha ragione? L’industria aeronautica, naturalmente.
Ma ci sono anche delle città che imparano dall’esperienza. Chicago ha in corso un progetto per eliminare l’asfalto da un quarto delle sue strade, che vengono trasformate in viali alberati con una pavimentazione permeabile all’acqua, per evitare l’effetto tappo, che in caso di piogge torrenziali le trasforma in fiumi. Stuttgart ha modellato la sua pianificazione urbana sulle esigenze di mitigazione dell’isola di calore che si forma sulla città: grazie a un attento monitoraggio, sono stati individuati i corridoi battuti dal vento che scende dalle colline e per non ostruirli sono state vietate le costruzioni alte su quei tracciati. Seul, dopo aver tenuto per cinquant’anni il fiume Cheonggyecheon imprigionato nelle sue viscere, ha smantellato l’autostrada che ci correva sopra e lo ha restituito alla luce del sole. Yonkers, la quarta città dello Stato di New York, ha fatto lo stesso con il fiume Sawmill. Kuala Lumpur ha costruito uno Smart Tunnel sotto il centro, per incanalare una parte del traffico, ma anche per sfogare le acque che montano in caso d’inondazione.
E questo è solo l’inizio. Siamo abituati a compilare una valutazione d’impatto ambientale per qualsiasi impianto, da un pannello solare sul tetto di casa a un nuovo aeroporto. Ora molti esperti concordano sul fatto che lo stesso tipo di valutazioni andrebbero fatte anche sull’impatto ambientale degli edifici. Ricostruire là dove non c’è sicurezza del futuro non ha senso. A maggior ragione, costruire edifici o insediamenti nuovi in aree che sarebbe più ragionevole lasciare vuote mette a rischio intere comunità. La specie umana, del resto, ha sempre avuto ben presente la necessità di mettersi d’accordo con la natura, altrimenti non sarebbe riuscita a crescere e a moltiplicarsi su tutta la superficie del pianeta, anche in ambienti ostili, dove non è facile sopravvivere senza l’aiuto della tecnologia. Pianificare guardando lontano e in sinergia con la natura sarà la prima difesa contro i cambiamenti climatici. Una consapevolezza preziosa, ma in fondo lo sapevamo già. Max Frisch ci aveva avvertiti.