Lezioni di futuro: vivere a impatto zero

Le sfide dello sviluppo sostenibile non sono soltanto tecnologiche, ma politiche. I danni all’aria, all’acqua, alla terra e al clima sono sotto gli occhi di tutti, ma la buona notizia è che sappiamo come evitarli, senza rinunciare al nostro livello di vita. Anzi, sappiamo che già oggi, cambiando abitudini, il nostro livello di vita può solo migliorare. Respireremo aria più pulita, mangeremo cibi più sani e correremo meno rischi di rimanere vittime di un tornado.
Tutti noi, cittadini e governi, abbiamo ben presente che cosa bisognerebbe fare per ridurre il nostro impatto sull’ambiente e consegnare ai nostri nipoti un pianeta ancora vivibile e accogliente. Conosciamo le tecnologie che ci danneggiano e quali sono le soluzioni alternative. Se non le applichiamo non è perché stiamo aspettando tecnologie nuove, senza le quali è impossibile cambiare modello. E’ soltanto perché nelle rivoluzioni i vincenti del vecchio sistema, se non si adeguano al cambiamento, finiscono per diventare i perdenti del nuovo mondo e questo crea resistenze molto forti, che cittadini e governi hanno paura di affrontare. Sappiamo anche, però, che dove si tenta di superare queste resistenze i risultati sono buoni e quindi cambiare modello si può e conviene. Sappiamo che i perdenti, messi di fronte al nuovo ordine, spesso riescono ad affrontare il cambiamento e a diversificare in settori nuovi, altrettanto remunerativi. Per arrivare a questo punto ci vuole una doppia spinta, da parte dei cittadini sui decisori e da parte di chi decide sul sistema economico e industriale. Solo in questo caso si mette in moto un circolo virtuoso per cambiare le regole, si abbattono barriere e si apre la strada alla novità, spingendo gli investitori a scommettere in una direzione nuova, i ricercatori a cercare in una direzione diversa dalle solite e la società intera ad abbandonare le vecchie abitudini.
Come in tutte le rivoluzioni, sono le città a guidare il cambiamento e quando la ruota si mette in moto, non ce n’è per nessuno: il suo rumore risuona nel mondo intero. “Le città avanzate non sono quelle dove i poveri vanno in macchina, ma quelle dove i ricchi prendono i mezzi pubblici”, sostiene da un lato Enrique Peñalosa, il mitico alcalde verde di Bogotà. “I pedoni, i ciclisti e gli utenti dei mezzi pubblici sono più importanti degli automobilisti”, gli fa eco Michael Bloomberg, il sindaco che ha riempito New York di piste ciclabili. Il sasso è già stato lanciato nello stagno e i suoi cerchi possono arrivare molto lontano. Da un’analisi spaziale condotta nel 2011 su 7000 compravendite di appartamenti, per conto della municipalità di Stoccolma, emerge l’importanza accordata dagli acquirenti alle distanze pedonali o ciclabili dai trasporti pubblici per stabilire il valore di un immobile, mentre la prossimità alle vie d’accesso automobilistiche non riveste più alcuna rilevanza. Il traffico automobilistico è considerato invece uno dei principali demeriti di un’area: le auto sporcano l’aria, fanno rumore, occupano molto più spazio dei trasporti pubblici e causano globalmente 39 milioni di feriti e 1 milione e 200mila morti all’anno, solo per colpa degli incidenti stradali, senza contare l’ecatombe delle vittime dell’inquinamento.
Nonostante il parere sempre più negativo degli abitanti, le strutture urbane relative all’automobile sono ancora pesantemente sovvenzionate: l’enorme spazio occupato dai parcheggi ha una priorità molto più alta delle piste ciclabili o dello spazio pedonalizzato nelle politiche locali e nessuno, per ora, ha messo seriamente in discussione questa ingombrante presenza, anche se qualche passo avanti è stato fatto rispetto agli anni Settanta, quando sembrava ancora normale parcheggiare in Piazza del Popolo o sotto la piramide del Louvre.
Questi orientamenti, che hanno guidato la pianificazione territoriale negli ultimi decenni, ora stanno cambiando, con effetti non trascurabili. Il fatto che Londra o Milano abbiano limitato l’accesso delle macchine al centro, per esempio, ha già avuto delle conseguenze sul mercato locale dell’auto e man mano che queste politiche si allargano anche le case automobilistiche non possono non tenerne conto. Il caso della Norvegia – dove ormai le auto a benzina o diesel sono talmente penalizzate dalle normative che le auto elettriche si vendono come il pane – la dice lunga sull’importanza di far emergere le esternalità nei processi decisionali e sul fatto che le tecnologie nuove non ci mancano per sostituire i vecchi arnesi a cui eravamo abituati.
In generale, l’ansia da ricarica è il freno principale all’acquisto di un veicolo elettrico. Questo ostacolo potrà essere eliminato con i progressi tecnologici sulle batterie. Ma serve anche uno sforzo di fantasia, per superare la vecchia concezione dell’automobile come strumento di libertà assoluta per eccellenza, lanciato on the road senza alcuna costrizione. Concezione superata dalla crescente densità del traffico, che ormai ci attanaglia da tutte le parti. Imbrigliata nelle reti dell’infomobilità, l’auto diventa sempre più uno dei tasselli che vanno a comporre il grande puzzle dei flussi di persone in movimento, un tassello usato spesso solo per coprire l’ultimo miglio, quel famoso tratto di raccordo fra i mezzi di lunga percorrenza su rotaia e le case o gli uffici di tutti noi, che non sempre si può fare a piedi o in bicicletta. Ogni anno, ad esempio, 400mila europei acquistano una seconda macchina solo per usarla in città. Qui non ci sono limiti tecnologici che tengano. Una soluzione elettrica è la risposta giusta a questa esigenza: è più efficiente del motore a combustione interna, più pulita e più economica da alimentare. Le altre auto sono troppo grandi e troppo inquinanti per intasare i centri urbani e infatti le città più avanzate stanno già cominciando a bandirle.
Lo stesso circolo virtuoso si è messo in moto anche in altri settori. Le fonti rinnovabili, ad esempio, sono diventate in pochi anni prevalenti rispetto alle fonti fossili nel mercato della generazione elettrica, grazie a una svolta radicale delle strategie governative, con importanti ricadute economiche e ambientali. Nel 2014, per la prima volta dalla rivoluzione industriale, i consumi di idrocarburi sono rimasti piatti, mentre l’economia globale ha continuato a crescere del 3% o poco più: il disaccoppiamento delle due curve, quella della crescita e quella delle emissioni (causate dalla combustione di idrocarburi), è merito della transizione verso le fonti pulite, che ora danno quasi il 23% dell’elettricità mondiale. L’anno scorso si sono aggiunti 135 gigawatt di nuova capacità da fonti rinnovabili, il 59% della nuova potenza elettrica netta installata nel mondo. Per il quinto anno di fila si è investito di più in rinnovabili che in fonti convenzionali, anzi, le risorse destinate alle rinnovabili elettriche sono state più del doppio degli investimenti in termoelettrico da fossili.
A spingere le fonti pulite sono i prezzi in calo, ma anche il fatto che un numero sempre maggiore di Paesi le promuova: il novero delle nazioni con obiettivi sulle rinnovabili è passato da 48 nel 2004 a 164 nel 2014, con 20 Paesi che si sono aggiunti l’anno scorso. La crescita maggiore riguarda il fotovoltaico, che nell’ultimo decennio si è moltiplicato per 48, dai 3,7 gigawatt del 2004 ai 177 gigawatt del 2014, mentre l’eolico è salito nello stesso periodo di 8 volte, da 48 a 370 gigawatt. Gli investimenti in rinnovabili a livello mondiale l’anno scorso sono cresciuti del 17% sul 2013, arrivando a 300 miliardi di dollari. E sarà sempre di più così.
Il World Resources Institute ha stimato che la generazione elettrica da fonti rinnovabili, grazie agli obiettivi di riduzione delle emissioni presentati alla Cop21 di Parigi, raddoppierà entro il 2030 nelle 8 maggiori economie mondiali. L’elettricità da fonti pulite di Cina, Stati Uniti, Unione Europea, Giappone, India, Brasile, Indonesia e Messico passerà da 9mila terawattora l’anno nel 2012 a 20mila terawattora nel 2030. Malgrado questi passi avanti, l’industria delle fonti fossili resta al centro delle politiche di sostegno dei governi mondiali e continua a percepire aiuti pubblici, diretti e indiretti, ben superiori a quelli elargiti alle fonti rinnovabili: nel 2014, in base alle stime del Fondo Monetario Internazionale, ha ricevuto 5.300 miliardi di dollari, vale a dire il 6,5% del Pil mondiale. Nel calcolo, oltre agli incentivi alla produzione di gas, petrolio, carbone e quelli al consumo, il Fondo include anche le esternalità negative, cioè i danni a salute, ambiente e clima, che le fossili al momento non pagano, ma scaricano sulla collettività. Per la quantificazione dei costi sanitari – che pesano per circa la metà di quei 5.300 miliardi – la stima del Fondo stavolta è più alta di quelle diffuse in passato. Se si eliminassero questi sussidi, i consumi di fonti fossili subirebbero un tracollo e le emissioni di gas serra calerebbero del 20%: un bel passo avanti nella lotta ai cambiamenti climatici. Eliminando il vantaggio che carbone, petrolio e gas si prendono a spese di tutti, si dimezzerebbero anche le morti premature causate ogni anno dall’inquinamento atmosferico. Togliendo i sussidi a gas, carbone e petrolio, le diverse fonti energetiche verrebbero messe nelle condizioni di competere veramente alla pari, spiega il Fondo, e ci sarebbe meno bisogno di incentivi alle rinnovabili, che comunque al momento pesano per 120 miliardi di dollari l’anno a livello globale, in base alla stima Iea del 2012: un’inezia in confronto ai 5.300 miliardi di dollari elargiti alle fossili.
L’efficienza energetica è l’aspetto più penalizzato da queste politiche contraddittorie. Le tecnologie per la decarbonizzazione in realtà non ci mancano, ma non vengono applicate in maniera consequenziale. Prendiamo l’aviazione civile: tagliare appena l’1% del carburante bruciato in un anno dal traffico aereo globale equivarrebbe a togliere dalla circolazione oltre 1 milione di auto o a piantare 1 milione e 300mila alberi, risparmiando, nel frattempo, 2 miliardi di dollari. Ma le inefficienze delle compagnie aeree sono ben superiori all’1%: nel corso di un qualsiasi volo, si calcola uno spreco medio del 20% in termini di tempi di viaggio e consumi di carburante. Per limitare questi sprechi, basterebbe applicare dei sensori nei punti strategici, ottimizzando il dialogo fra macchina e macchina, oltre che fra uomini e macchine. Alcune compagnie aeree stanno cominciando a farlo, con notevoli risparmi, ma sono solo i primi segnali di un’evoluzione verso la crescita sostenibile ancora tutta da strutturare.
In Europa i target ci sono, ma mancano gli strumenti normativi per tradurli in pratica, tanto è vero che siamo ancora ben lontani dall’obiettivo, fissato per il 2020, di un taglio del 20% dei consumi energetici, rispetto ai livelli del 1990. Il punto dolente dell’efficienza energetica è l’industria, che consuma il 42% di tutta l’elettricità generata. Serve uno sforzo per scindere la crescita della produzione industriale dall’aumento dei consumi di combustibili fossili: oltre alle smart town ci vuole un po’ di smart manufacturing. Già oggi i macchinari vengono equipaggiati con un numero crescente di sensori elettronici, che consente loro di vedere, ascoltare e percepire molto più di quanto sia mai avvenuto prima, generando una grande quantità di dati. Con lo sviluppo di un dialogo sempre più vivace e interconnesso fra le macchine con altre macchine, con le persone e con il web, si potrebbe migliorare l’efficienza di interi settori industriali, con ricadute favorevoli sia per l’ambiente che per gli affari. Questa nuova ondata d’innovazione nell’industria potrebbe contribuire al prodotto interno lordo globale con una cifra che oscilla dai 10 ai 15mila miliardi di dollari nei prossimi 20 anni, in base a uno studio di Marco Annunziata, capo economista di General Electric.
“L’Europa si trova in una posizione ottimale per cogliere i frutti di questa nuova rivoluzione tecnologica, che potrebbe dare impulso alla crescita economica, rafforzando nel contempo la sua posizione su un mercato globale sempre più competitivo”, precisa Annunziata. Il Vecchio Continente, infatti, ha mancato il primo balzo di produttività, stimolato dal crescente utilizzo delle tecnologie informatiche, che ha permesso al sistema industriale americano di mettere a segno progressi del 3% all’anno nel decennio scorso, mentre l’Europa è rimasta sotto l’1%. “Ora potrebbe essere la volta buona per cogliere la seconda ondata dell’innovazione”, spera Annunziata. La capacità di mettere i dati a fattor comune potrebbe consentire all’industria, ai trasporti e alle utilities europee di lavorare meglio, riducendo i costi e tagliando gli sprechi di energia, con ricadute economiche e ambientali di vasta portata. “Una rete aperta e globale per collegare persone, dati e macchine, potrebbe contribuire al Pil europeo con 2.200 miliardi di euro entro il 2030″, stima Annunziata. Per capire quanta energia si possa risparmiare con l’efficienza, basta confrontare le economie esistenti: quella giapponese, la più efficiente del mondo, con la stessa quantità di energia genera una quantità di Pil 16 volte superiore rispetto a quella russa, 8 volte superiore rispetto a quella cinese e doppia rispetto a quella americana. La principale difficoltà da superare, per l’Europa, sta nelle limitazioni agli investimenti imposte dalla crisi economica. La soluzione è tagliare la spesa pubblica improduttiva, per ridurre la pressione dello Stato sulle imprese e stimolare gli investimenti nelle infrastrutture. Ma anche qui serve una politica integrata a favore dell’efficienza e della sostenibilità nel sistema produttivo.
La strategia dei governi, quindi, non è per niente univoca e la transizione verso un sistema pulito non si potrà completare finché le politche non diventeranno più consequenziali. Nel frattempo, però, gli investitori stanno già facendo sentire la loro voce. Il movimento globale per il disinvestimento dalle fonti fossili è arrivato a coinvolgere 400 istituzioni e oltre duemila investitori individuali, spostando capitali per 2.600 miliardi di dollari, compresi i soldi di Leonardo Di Caprio, testimonial illustre della campagna. Fra di loro, il più grande fondo sovrano del mondo, il Government Pension Fund Global della Norvegia, ha annunciato l’intenzione di vendere 8 miliardi di titoli legati all’uso del carbone. Sono sulla stessa linea due dei fondi pensione più potenti, il California Public Employees Retirement System (Calpers) e il California State Teachers Retirement System (Calstrs). La fuga dai combustibili fossili, che già si rispecchia nel calo di un indice come il Msci Global Energy Producers, non ha motivazioni ideologiche, o quanto meno non solo. Il criterio alla base di questo movimento sta nel rischio, a cui vanno incontro tutte le società impegnate nei combustibili fossili, di trovarsi zavorrate da crescenti stranded assets (beni inutilizzabili). Questo rischio pesa sul valore futuro delle loro azioni e chi preferisce andare sul sicuro tende a disfarsene. “La transizione verso un’economia a bassa intensità di carbonio implica il fatto che molti combustibili fossili destinati inizialmente a essere bruciati resteranno invece sottoterra”, sostiene un recente rapporto di Citi, intitolato Energy Darwinism.
Il concetto di bilancio globale del carbonio, delineato dalle Nazioni Unite, indica che la concentrazione di CO2 nell’atmosfera, causa prima dell’effetto serra, non dovrebbe andare oltre una certa soglia di sicurezza, al di là della quale gli attuali squilibri del clima potrebbero assumere caratteri catastrofici. “Le emissioni contenute nelle attuali riserve di combustibili fossili, in capo alle diverse società petrolifere e minerarie, sono circa tre volte superiori a quelle considerate spendibili nel bilancio globale del carbonio”, precisa Citi. La comunità scientifica è concorde sul fatto che un terzo delle attuali riserve di petrolio, metà delle riserve di gas e oltre l’80% delle riserve globali di carbone dovranno restare sottoterra se vogliamo mantenere il riscaldamento globale entro la soglia critica dei 2°C. “In termini finanziari, stimiamo che queste riserve raggiungano un valore di oltre 100.000 miliardi di dollari, da qui al 2050”, ragiona Citi. Ci perderà di più chi basa il suo business sul carbone, che secondo Citi avrà 62mila miliardi di stranded assets, cioè di beni inutilizzabili e quindi privi di valore, mentre il patrimonio azzerato delle società petrolifere sarà di 25mila miliardi nel petrolio e di 24mila miliardi nel gas. Da qui al 2040 Citi prevede una caduta degli investimenti nel carbone di oltre 11mila miliardi di dollari e nel gas di oltre 3mila miliardi. I grandi beneficiari di questa transizione verso un’economia a bassa intensità di carbonio saranno le fonti rinnovabili – con un aumento complessivo degli investimenti di quasi 3mila miliardi di dollari nell’eolico e di oltre 2mila miliardi nel solare – ma anche il nucleare, con un aumento di oltre 2mila miliardi di dollari.
Non stupisce, dunque, la fretta dei risparmiatori di uscire dai combustibili fossili per puntare sulle energie pulite. In base all’ultimo rapporto di Arabella Advisors, il numero delle istituzioni finanziarie intenzionate a disinvestire dai fossili è aumentato da 181 nel settembre 2014 a 436 oggi. A convincere altri investitori potrebbe essere la ricerca di Corporate Knights, che ha analizzato le performance di 14 grandi fondi di investimento negli ultimi tre anni e ha scoperto che se questi si fossero liberati dalle partecipazioni nelle fonti fossili avrebbero guadagnato 23 miliardi di dollari in più. Prova ne sia che l’All Country World Index ex fossil fuels di Msci, l’indice azionario globale dal quale sono state escluse 124 società del carbone e del petrolio, a un anno dalla sua creazione nell’ottobre dell’anno scorso, ha registrato un rendimento annuale del 6,5%, contro il 4,1% dell’Acwi ordinario, l’indice globale che include anche le fonti fossili. Le fonti verdi battono le nere 6 a 4.