Microrobot e ricerca contro la moria delle api

Senza api non c’è primavera. Ci mancherà il loro ronzio operoso e rassicurante. Ma soprattutto, ci mancherà almeno un terzo dei raccolti, la cui impollinazione dipende dall’alacrità delle colonie di Apis mellifera. Se già oggi le famose pere del Sichuan, in Cina, devono essere impollinate a mano e le mandorle della California, equivalenti all’80% della produzione mondiale, costano il doppio per colpa del collasso degli alveari, è facile immaginare il seguito. Rimpiazzare l’opera delle api con l’impollinazione manuale per tutti gli Stati Uniti, in base alle stime, avrebbe un costo annuale di 90mila miliardi di dollari, con ricadute devastanti sul mercato globale delle materie prime alimentari. E in Europa, dove il problema è altrettanto grave, non siamo distanti da quelle stime. Solo l’Australia, per ora, è stata risparmiata.

Malgrado ciò, molto poco si sta facendo per contrastare la devastazione degli alveari, una vera e propria apicalisse, parodiando il termine beepocalypse utilizzato da Michael Schacker, l’autore che ha parlato per la prima volta, nel lontano 2008, del cosiddetto colony collapse disorder. Qual è il motivo che porta intere colonie a svanire nel nulla, lasciando sempre più spesso gli apicoltori con un palmo di naso? Casi di questo tipo si sono verificati già in passato nella storia dell’apicoltura, ma il drastico aumento avvenuto a partire dal 2007, prima in Nord America e poi in Europa, con perdite del 40-50% ogni inverno, sta flagellando vasti settori dell’industria alimentare, senza ancora aver trovato una risposta univoca. In base a uno studio appena pubblicato dall’università di Reading, già oggi in Europa mancano 7 miliardi di api per impollinare correttamente i raccolti, con le carenze più gravi registrate nel Regno Unito, in Finlandia e nei Paesi Baltici e l’Europa centro-occidentale a seguire. Italia, Spagna e Paesi danubiani sono in una posizione intermedia, mentre Svezia, Irlanda, Olanda, Portogallo, Austria e Balcani per ora risultano quasi al riparo dal flagello.

I laboratori al lavoro

Da qui si moltiplicano gli sforzi della ricerca. Monsanto, che ha lanciato l’anno scorso il suo primo Bee Health Summit, ha reclutato il Nobel Craig Mello, padre del silenziamento transgenico, nel suo centro Beeologics, per tentare di ingegnerizzare delle super-api resistenti agli agenti patogeni. Bayer aprirà in aprile il suo terzo centro studi sulla salute delle api in North Carolina. L’università svedese di Lund ha sviluppato un supplemento alimentare a base di acido lattico, SymBeeotic, per rafforzare le loro difese. Si arriva fino agli esperimenti per rimpiazzare le piccole operaie con mezzi meccanici, primo fra tutti quello di un manipolo d’ingegneri di Harvard, specializzati in microrobotica. Le Robobees, il più piccolo apparecchio costruito dall’uomo in grado di volare, sono capaci di sbattere le ali 120 volte al secondo e di librarsi come un’ape, ma per riuscire a comporre uno sciame adatto all’impollinazione artificiale, in grado di auto-alimentarsi e di prendere decisioni autonome, ci vorranno altri 10 anni di studi, secondo Rob Wood, il capo del team di Harvard.

Imputati i pesticidi

Perché non limitarsi, invece, a eliminare gli agenti patogeni? I pesticidi sono i principali imputati, in particolare quelli a base di neonicotinoidi, neurotossine capaci di uccidere gli insetti con dosi infinitesimali o di danneggiarli con somministrazioni ancora più ridotte. Questi effetti sono benvenuti quando si tratta di insetti dannosi, come le zanzare che portano la malaria, ma non quando le vittime sono le api. Di conseguenza, dalla fine del 2013 è entrata in vigore una moratoria che bandisce per due anni gli insetticidi a base di neonicotinoidi dall’Unione Europea. Il provvedimento ha lasciato l’amaro in bocca sia ai contrari, preoccupati della sicurezza dei raccolti, che ai favorevoli, perché due anni in agricoltura sono un tempo molto breve per capire se l’intervento è utile, tanto più che i trattamenti sui raccolti dell’estate prossima sono già stati fatti e nella moratoria sono inclusi solo i pesticidi destinati alle sementi e alle applicazioni fogliari su piante da fiore, non sulle altre, per cui le api saranno protette con molto ritardo e solo parzialmente dall’esposizione a queste sostanze.

Ma oltre ai pesticidi, sono state identificate diverse altre cause, dalla perdita dell’habitat alla malnutrizione, dalle pratiche dell’apicoltura industriale, che sposta gli alveari da un continente all’altro propagando le epidemie, alla selezione genetica commerciale, che elimina la biodiversità delle colonie e riduce le difese immunitarie, dalle infestazioni degli acari della Varroa e dell’Acarapis alle radiazioni elettromagnetiche. Come tutte le diagnosi incerte, anche queste non hanno condotto, per ora, alla cura della malattia. E non stupisce, visto che la moderna società industriale poggia saldamente su una combinazione dei fattori citati, quindi si tratterebbe di cambiare il modo in cui viviamo per salvare le api, una tesi condivisa da molti apicoltori e in particolare da Markus Imhoof, nel suo magistrale documentario “Un mondo in pericolo”. D’altra parte, se è vero che l’uomo non sopravviverà più di quattro anni dopo la loro estinzione (secondo Einstein), dalla salvezza delle api dipende anche la salvezza della specie umana.

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