L’acqua è l’elemento che manca di più al benessere dell’umanità. Ad oggi, 1,8 miliardi di persone soffrono la sete, nel mondo. Un milione e mezzo di bambini all’anno – quattromila al giorno – muoiono di malattie derivate dall’acqua contaminata. Nel 2050 la sete colpirà quattro miliardi di persone, in base alle previsioni della Banca Mondiale, quasi la metà della popolazione globale. Da qui ad allora, la richiesta di acqua aumenterà del 55%, secondo i calcoli dell’Ocse, ma la quantità disponibile non cambia: tutti gli esseri viventi non marini sopravvivono con lo 0,75% dell’acqua presente sulla Terra. Il resto è mare o ghiacci. L’unica opzione per aumentare la disponibilità di acqua dolce al di là del ciclo idrogeologico è la dissalazione dell’acqua di mare, un processo costoso e molto energivoro. Il settore ha consumato l’anno scorso oltre il 4 per cento della produzione totale di energia elettrica nel mondo e da qui al 2040 il fabbisogno di energia per la dissalazione è destinato a raddoppiare, secondo le stime dell’International Energy Agency.
Da qui, la decisione storica dell’International Desalination Association e del Global Solar Council di unire le forze per promuovere la dissalazione pulita, alimentata dall’energia del sole. L’accordo, firmato questa settimana a San Paolo, in Brasile, dal presidente dei dissalatori Emilio Gabbrielli e dal co-presidente dei solari Gianni Chianetta, rientra in uno sforzo globale per spingere l’industria della dissalazione – che sta crescendo a ritmi forsennati – verso uno sviluppo sostenibile, che non pesi ulteriormente sul bilancio carbonico del pianeta. “Il problema dell’acqua e quello dei consumi globali di energia sono strettamente legati e destinati ad alimentarsi l’un l’altro negli anni a venire”, commenta Chianetta. Per questo l’iniziativa di San Paolo è uno snodo importante per un settore consapevole delle proprie responsabilità, come dimostra anche la nascita della Global Clean Water Desalination Alliance già nel 2015. L’Alleanza “H2O minus CO2” è stata lanciata su iniziativa del governo francese e dell’International Desalination Association, che conta oltre 2300 membri in 60 Paesi del mondo, durante la COP21, a margine dei negoziati di Parigi sui cambiamenti climatici, e mira a riunire i protagonisti industriali della dissalazione e dell’energia pulita, al fine di ridurre le emissioni di CO2 dal settore. Un primo passo nella direzione giusta, seguito questa settimana dall’accordo di San Paolo, approvato dal congresso mondiale dei dissalatori.
I consumi energetici del settore, in questi anni, sono già stati ridotti dall’innovazione tecnologica. Ma anche la tecnica più avanzate, l’osmosi inversa, comporta il passaggio dell’acqua salata attraverso una serie di membrane a una pressione fino a 80 bar (40 volte quella degli pneumatici), con un consumo di quasi 4 kilowattora per ogni metro cubo di acqua filtrata, a un costo di circa un dollaro per metro cubo. L’osmosi inversa si è andata affermando nel corso degli anni Novanta, perché dimezza i consumi di energia e riduce i costi di due terzi rispetto ai vecchi impianti a distillazione termica, che ancora oggi producono l’80% dell’acqua dissalata nel mondo. Un bel progresso, ma è ancora dieci volte il costo delle risorse idriche tradizionali, soprattutto per gli alti consumi di energia.
Grazie alla crescente competitività, gli impianti di dissalazione si stanno moltiplicando sulle coste di tutto il mondo e negli ultimi cinque anni sono cresciuti del 50%: solo in California ce ne sono altri 15 in progettazione o in via di realizzazione. La Cina attualmente ha in esercizio una trentina di dissalatori e altri sei in costruzione, l’India ne ha realizzati otto e ne sta costruendo altri tre. Il più grande dissalatore via osmosi inversa è in Israele, a Sorek, e fornisce il 20% dell’acqua potabile del Paese, rendendolo completamente indipendente sul piano idrico. L’impianto, però, è alimentato da una centrale a gas da 80 megawatt, che gli fornisce l’energia necessaria per funzionare. Finora, tutti i grandi impianti di dissalazione sono alimentati da centrali a combustibili fossili, anche se in realtà, nei Paesi dove se ne costruiscono di più, il sole è una risorsa molto abbondante, che potrebbe essere ampiamente sfruttata.
Le tecnologie per alimentare i processi di dissalazione con impianti fotovoltaici o solari sono già ampiamente sviluppate e nei casi di impianti piccoli, sulle isole o su territori pregiati, come a Bora Bora, nella Polinesia francese, sono già diffuse. Sugli impianti grandi c’è un problema di finanziamento perché i costi iniziali, come sempre negli impianti alimentati a fonti rinnovabili, sono superiori, salvo poi recuperare l’investimento nel tempo grazie ai costi di esercizio molto più ridotti, rispetto a un impianto che deve comprare il gas o il gasolio per alimentare il processo di dissalazione.
Con l’accordo di San Paolo, l’industria della dissalazione s’impegna a “spianare la strada a una riduzione dei costi e alla diffusione di soluzioni innovative per la dissalazione a energia solare”. Una decisione che potrebbe portare a una svolta in questa industria energivora.