Il destino di Arturo è segnato. Entrato in funzione a Caorso nel 1978 e spento nell' 87, dopo neanche un decennio di produzione elettrica nella campagna piacentina, 29 miliardi di kilowattora in tutto, l' ultimo reattore italiano da allora ha smesso di illuminare le nostre case ma ha continuato a essere curato da una nutrita truppa di tecnici. Nell' impianto, dopo vent' anni, sono ancora stoccate 190 tonnellate di combustibile irraggiato, destinate a essere trasferite in Francia per il riprocessamento, dopo la firma all' inizio di maggio dell' accordo con Areva. In una decina d' anni al posto della centrale dovrebbe ritornare un «prato verde». Come se l' esperienza nucleare fosse solo un brutto sogno da dimenticare. Ma è davvero così? Massimo Romano, l' uomo chiamato dal Tesoro a rivoltare Sogin come un calzino dopo gli scandali della passata gestione, non sembra per niente d' accordo. Concluso un decennio di lobbying per l' Enel, il potente responsabile degli affari istituzionali e delle strategie dell' ex monopolista elettrico è andato ora a guidare con il medesimo spirito combattivo la società pubblica cui è affidato lo smantellamento delle quattro centrali atomiche italiane di Trino, Caorso, Latina e Garigliano, oltre all' impianto di fabbricazione del combustibile di Bosco Marengo e i centri di ricerca ex Enea di Saluggia, Casaccia e Trisaia. Un salto mortale da un colosso multinazionale con 60mila dipendenti a un' aziendina di nicchia, in cui Romano vede però «grande potenziale». Sogin è l' unico strumento rimasto in mano al Paese per mantenere vivo il know how nucleare, raccolto in un quarto di secolo di attività, dall' entrata in funzione della centrale di Latina nel ' 64 al blocco dovuto al referendum dell' 87. Ma bisogna agire in fretta, prima che vada perso. «Sulla destinazione delle aree – spiega Romano – non spetta a Sogin decidere, come non spetta agli operatori industriali qualunque decisione relativa al ritorno al nucleare in Italia. Ma se un giorno si verificassero le condizioni per un ritorno, sarà determinante non aver disperso la vocazione industriale di alcune porzioni del territorio italiano che per decenni hanno sviluppato una cultura della convivenza con l' attività nucleare». Mantenere un piede nella porta, quindi, è la sua mission. Non sarà una mission impossible, ma quasi. Dopo un buco di vent' anni, in cui si sono spesi oltre 800 milioni di euro solo per il mantenimento in sicurezza dell' esistente, non è facile riprendere il filo del discorso. «Nel ciclo nucleare l' attività di decommissioning non ha minore dignità di quella relativa alla costruzione e all' esercizio degli impianti», precisa Romano. «Nei prossimi quindici anni, tenuto conto che molte centrali si avvicineranno a fine vita, questo mercato sarà ancora più significativo: Sogin e il sistema industriale italiano devono cogliere l' occasione per ritagliarsi uno spazio adeguato, in particolare in Russia e nei Paesi dominati dalla tecnologia russa, che rappresentano larga parte del mercato mondiale e dove operiamo già da anni sia in ambito civile che militare». È necessario però un ripensamento radicale del modello di business. Con 784 dipendenti e un giro d' affari di 121 milioni di euro, «non c' è dubbio che Sogin appaia ridondante in relazione alla sua missione e al fatturato realizzato», commenta Romano, soprattutto se la si confronta con i competitor esteri, dalla britannica Nda (1.417 milioni di fatturato con 220 dipendenti) alla belga Ondraf (100 milioni di fatturato con 62 addetti). Per non parlare dell' età media del personale: 57 anni i dirigenti, 50 i quadri (contro medie del settore di 50 e 47). Il riassetto punterà a fare in modo che anche in Italia «il decommissioning abbia costi e tempi allineati agli standard internazionali». A partire dal risanamento di Bosco Marengo, dove ci sono le condizioni per completare il lavoro in 24-30 mesi, dopo il lungo sonno delle autorizzazioni. «Sui ritardi accumulati, oltre alle difficoltà autorizzative, ha pesato una sostanziale ambiguità del modello di Sogin», ammette Romano. «Per rimettere in moto il processo – indica – alla cultura tecnica bisogna aggiungere una cultura gestionale che manca». Sarà sufficiente per risvegliare la bella addormentata nel bosco del nucleare italiano?
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