Con lo scoperchiamento della vicenda del “dieselgate” di Volkswagen, è arrivato il momento della verità sulle emissioni inquinanti dei motori a combustione interna. Ma le tecnologie alternative, come l’auto elettrica, non sono ancora pronte. Restano care, offrono un’autonomia limitata, non garantiscono una vita della batteria equivalente a quella del veicolo. Ad oggi, è in circolazione sulle strade di tutto il mondo appena un milione di auto elettriche (su 1 miliardo e 200 milioni di auto tradizionali), intese come elettriche plug-in, cioè veicoli per il trasporto di persone che si ricaricano attaccandosi alla rete elettrica, quindi escluse le vecchie ibride, ma incluse le nuove ibride plug-in. Una cifra destinata a crescere rapidamente, in base alle stime, ma pur sempre modesta rispetto alle previsioni del passato, a partire da quella più famosa del capo di Renault-Nissan Carlos Ghosn, che nel 2009 prevedeva per l’auto elettrica il 10% del mercato globale entro un decennio. In realtà, quest’anno le vendite di e-car supereranno di poco le 500mila unità, meno dell’1% degli oltre 70 milioni di vetture vendute globalmente.
In generale, l’ansia da ricarica è il freno principale, oltre ai prezzi mediamente alti del veicolo. Tesla, che al momento dispone della tecnologia più avanzata – e la fa pagare cara – sostiene di arrivare a 400 chilometri di autonomia a batteria piena, mentre le altre si muovono fra i 130 e i 190 chilometri. Esaurita la carica, non resta che mettersi tranquilli e aspettare otto ore per la ricarica completa, a meno che non si abbia a disposizione una colonnina a carica rapida, in grado di ricaricare fino all’80% della capacità della batteria in meno di mezz’ora. È chiaro che questo non rappresenta un problema per chi utilizza la macchina su percorsi urbani o poco più: basta metterla sotto carica a fine giornata e il mattino dopo si riparte con il pieno. Ma non tutti fanno un uso dell’auto così regolare.
Per mettere il turbo alle vendite, dunque, ci vorrebbe un salto tecnologico rilevante, sia sull’autonomia che sulla ricarica. Questo è l’obiettivo di un esercito di scienziati, a caccia del Graal dell’energia: una batteria a costi ragionevoli, con una densità energetica equivalente a quella di un serbatoio pieno di benzina e capace di caricarsi in fretta, come siamo abituati a fare in una sosta dal benzinaio. In prospettiva, grazie a tutte queste ricerche in corso, gli analisti del settore ritengono che il costo delle batterie sia destinato a ridursi in fretta: le stime al 2020 oscillano dai 180 dollari al kilowattora di Eurelectric ai 200 dollari di McKinsey, rispetto ai 3-400 dollari attuali, il che dovrebbe portare i prezzi dell’auto elettrica al livello dei modelli equivalenti a benzina.
La prima speranza sono i miglioramenti incrementali della tecnologia esistente, soprattutto grazie agli sforzi del patron di Tesla Elon Musk (si veda anche articolo a fianco, ndr). Con la sua Gigafactory, in via di realizzazione in Nevada, Musk conta di ridurre di un terzo il costo delle sue batterie agli ioni di litio, grazie alle economie di scala: alla piena operatività, la fabbrica potrà sfornare 35 gigawattora di moduli agli ioni di litio l’anno, più di quanti ne siano stati prodotti in tutto il mondo nel 2013. La Gigafactory dovrebbe iniziare la produzione nel 2017, lo stesso anno in cui Tesla introdurrà il famoso Model 3, una vettura del costo di circa 35.000 dollari, con la quale l’azienda vuole uscire dalla nicchia del lusso e aggredire il mercato di massa.
Un’evoluzione della tecnologia agli ioni di litio, ancora di là da venire ma molto promettente, sono invece le batterie allo stato solido, in cui l’elettrolita che separa il catodo dall’anodo non è liquido, come nelle batterie agli ioni di litio attualmente in commercio, ma solido. Il vantaggio, oltre alla maggiore stabilità e sicurezza del dispositivo, è il raddoppio dell’autonomia per una frazione dei costi. La maggior parte degli elettroliti liquidi, infatti, è infiammabile e per evitare disgrazie bisogna aggiungere una serie di sistemi di sicurezza, oltre a evitare di caricare e scaricare completamente la batteria, con uno spreco importante di capacità. Il tutto aggiunge peso e costi, che non servono nelle batterie allo stato solido. Su questa variante stanno lavorando in molti e la ricerca è ormai a uno stadio avanzato, tanto che diverse startup hanno già incamerato notevoli finanziamenti da investitori importanti.
Saskti3, in pole position in questa corsa, ha Gm fra i suoi investitori e l’inglese Dyson, leader negli elettrodomestici per la casa, che ha investito 15 milioni di dollari per sostenere lo sviluppo di questa tecnologia e in prospettiva utilizzarla nei propri prodotti. Saskti3 è uno spinoff dell’Università del Michigan con sede ad Ann Arbor, guidato da una docente della stessa università, Ann Marie Sastry, con una lunga esperienza di ricerca sul tema, sia in ambito pubblico che privato, ma molto riservata sui dettagli della sua tecnologia, di cui è ancora ignoto il materiale utilizzato come elettrolita. Un’altra startup che lavora sullo stesso fronte è Seeo, fondata da Hany Eitouni, che ha sperimentato per oltre un decennio il trasferimento di ioni con i polimeri al Berkeley Lab, prima di mettersi in proprio. Seeo, basata nella Bay Area poco a Sud di Berkeley, è appena stata comprata dalla tedesca Bosch, ben decisa a non rimanere indietro su una tecnologia che potrebbe rivoluzionare il futuro delle batterie. Tra gli altri concorrenti, SolidPower, PlanarEnergy e QuantumScape sono da tenere d’occhio.
In alternativa, procedono a ritmo sostenuto anche tutte le ricerche sulle batterie che sfruttano l’ossigeno dell’aria come reagente insieme a un metallo nella trasformazione chimica per produrre energia, dalle pile alluminio-aria, alle zinco-aria, fino alle litio-aria. In generale, si tratta di batterie con una densità energetica molto alta, potenzialmente dalle cinque alle 15 volte superiore alle attuali batterie agli ioni di litio, ma che presentano l’irritante svantaggio di scadere dopo un ciclo e quindi non si possono più ricaricare. L’israeliana Phinergy ha dimostrato di poter far viaggiare un’auto di medie dimensioni per 1800 chilometri con la sua tecnologia alluminio-aria senza bisogno di ricarica, dopo di che la batteria dev’essere sostituita. A contatto con l’ossigeno e l’acqua come elettrolita, infatti, l’anodo di alluminio si consuma e dev’essere rimpiazzato alla fine del ciclo. Ma una società giapponese, Fuji Pigment di Ryohei Mori, con sede vicino a Osaka, ha sostenuto recentemente di essere riuscita a proteggere l’anodo di alluminio, inserendo in posizione strategica degli strati di ceramica e carbonio, che evitano la corrosione. Così la batteria alluminio-aria si potrebbe ricaricare più volte, semplicemente aggiungendo acqua. Il Graal dell’energia, in questo caso, sarebbe già stato trovato. Ma la scoperta giapponese deve ancora convincere la comunità scientifica internazionale.