Le megalopoli sono considerate da sempre i punti più caldi del pianeta in relazione ai rischi ambientali, perché sono luoghi con un’altissima concentrazione di persone, di attività economiche e di potere politico. Megalopoli come Jakarta o Dacca hanno più industrie e quindi corrono rischi maggiori, in caso di disastri naturali, rispetto alle città medie. Ma hanno anche capacità diverse di reazione. In realtà, le città piccole e medie crescono più rapidamente delle metropoli, soprattutto in Africa e in Asia, e sono le più vulnerabili ai rischi ambientali. Centri urbani con una popolazione tra i 300 e i 500mila abitanti o tra i 500mila e i 5 milioni, come ad esempio Kampala in Uganda, Niamey in Niger o Chittagong in Bangladesh, hanno tassi molto alti di crescita della popolazione e del livello di povertà, con enormi carenze d’infrastrutture e di governance. I nuovi immigrati tendono a essere più poveri e meno istruiti dei residenti e a vivere in condizioni abitative più precarie. Lo sviluppo non pianificato travolge presto le ridotte capacità amministrative locali e le baraccopoli spesso crescono in aree ad alto rischio d’inondazione, come a Port Harcourt lungo il delta del Niger o Ouagadougou in Burkina Faso.
Nel complesso, la popolazione delle città piccole e medie crescerà di oltre il 32% da qui al 2030, attirando ben 470 milioni di nuovi abitanti. Nelle megalopoli invece si prevede una crescita del 26% (200 milioni di persone). In India, ad esempio, metà dei 100 milioni di nuovi residenti urbani da qui al 2030 affluirà in città di medie dimensioni, come Agartala, Imphal, Tiruppur e Tirupati. Un quarto affluirà in quattro megalopoli: Delhi, Mumbai, Kolkata e Bangalore.
La grande vulnerabilità delle piccole città emerge in tutta la sua gravità da uno studio guidato da Joern Birkmann, direttore dell’Istituto di pianificazione regionale dell’università di Stuttgart, pubblicato su Nature. Per valutare quali Paesi hanno la più alta vulnerabilità urbana Birkmann e colleghi hanno analizzato le popolazioni urbane di 140 paesi, partendo da 1.600 città con una popolazione di oltre 300mila abitanti. Il primo problema che salta all’occhio, è la mancanza di dati sociali e ambientali di base prodotti localmente. I ricercatori hanno dovuto spesso basarsi solo sulle medie prodotte dalla Banca Mondiale. Il secondo problema drammatico sono i finanziamenti. “Le catastrofi naturali colpiscono indipendentemente dal reddito”, rileva Birkmann. La stessa proporzione (11-15%) di popolazione urbana è molto esposta al rischio d’inondazione in Giappone, nei Paesi Bassi e a Haiti. Ma solo i Paesi ricchi possono permettersi di difendersi contro questi pericoli. La barriera di Maeslant, che protegge la città olandese di Rotterdam dalle mareggiate con bracci in acciaio lunghi 240 metri, è costata 500 milioni di dollari, quanto l’intero bilancio statale di Haiti.
Dallo studio si deduce che i Paesi con le popolazioni urbane più vulnerabili sono in Africa (Burkina Faso, Mali e Uganda) e in Asia (Afghanistan e Yemen), oltre a Haiti nei Caraibi. Anche l’India e il Bangladesh sono fra i dieci Paesi più a rischio. Ma ci sono molte città medie nel mondo industrializzato che presentano un alto tasso di vulnerabilità, ad esempio agli shock economici. Le città medio/piccole in tutto il Midwest degli Stati Uniti, come ad esempio Detroit nel Michigan, hanno perso migliaia di posti di lavoro e di produzione industriale durante la crisi economica della fine degli anni 2000 e in mancanza di un sistema industriale diversificato gli abitanti sono meno in grado di trovare nuove opportunità di lavoro rispetto alla popolazione di città più grandi. Nelle città medie, inoltre, spesso mancano i capitali per la riconversione di sistemi di produzione obsoleti. Chiaramente, le città piccole e medie hanno altri vantaggi e non mancano di capacità di ripresa, se non altro perché sono più facili da gestire rispetto alle megalopoli. Le strategie di difesa sono più facili da applicare e il coordinamento tra il potere politico e i diversi gruppi della società civile è più articolato.
Resta il fatto che le città medio/piccole sono tantissime e molto diverse fra di loro: la sfida per lo sviluppo sostenibile, secondo Birkmann, si giocherà molto di più su questo tipo di aree urbane piuttosto che sulle megalopoli.