Le nuove Sette Sorelle

Nuove tecnologie, nuovi scenari. L'evoluzione dei mezzi di produzione migliora l'efficienza e sposta gli equilibri fra manifattura e terziario. Succede così in quasi tutti i settori, ma non nell'energia. Un campo ancora dominato dagli idrocarburi, dove la produzione invece che avanzare va indietro. Non per carenze tecnologiche, ma per motivi politici. La rinascita del nazionalismo nei Paesi petroliferi, dal Medio Oriente al Sudamerica, sta costando carissima al resto del pianeta: 2 miliardi e mezzo di dollari al giorno, centesimo più, centesimo meno.
E' questa la differenza di prezzo che oggi paghiamo per soddisfare il fabbisogno quotidiano di petrolio dell'umanità, dopo quattro anni di caduta della produzione e di aumento costante delle quotazioni, che a metà 2003 si aggiravano sui trenta dollari al barile e oggi superano ampiamente i sessanta, senza grandi prospettive di riduzione nel prodssimo futuro. In quattro anni di trasformazione radicale dell'industria petrolifera, la bolletta energetica del pianeta è più che raddoppiata. Nell'ultimo decennio, addirittura, è quadruplicata. Ormai l'economia globale si è sintonizzata su questo aumento stratosferico, analogo a quello che causò la catastrofica crisi petrolifera a cavallo tra fine anni Settanta-inizio Ottanta, e lo dà quasi per scontato. Ma i motivi alla base di questo aumento pesano drammaticamente sulle prospettive future dell'economia mondiale, che non ha ancora trovato una valida alternativa al petrolio per mandare avanti i suoi ingranaggi. L'evoluzione a cui stiamo assistendo, infatti, non è ancora completa.
In questi quattro anni un nuovo gruppo di compagnie petrolifere ha spazzato via i leader che avevano dominato il settore nel mezzo secolo precedente. Delle famose sette sorelle di matteiana memoria, oggi rimane ben poco. Nel processo di consolidamento avvenuto negli anni Novanta, la Standard Oil of New Jersey, la Standard Oil of New York e la Gulf Oil sono confluite nella ExxonMobil, la più potente di questo gruppo. La British Anglo-Persian Oil Company, oggi BP (Beyond Petroleum), viene per seconda. Poi c'è la ChevtonTexaco, in cui è confluita anche la Standard Oil of California. Infine la Royal Dutch Shell. Nomi ancora altisonanti, che Wall Street continua a riverire. Ma a ben guardare le sorelle superstiti sono da tempo in preda a una grave crisi d'identità. Questi quattro colossi, che nei primi anni Cinquanta facevano arrabbiare Enrico Mattei dettando le regole di un mercato che dominavano largamente, oggi producono complessivamente non più di un decimo degli idrocarburi mondiali e ne posseggono solo il 3 per cento delle riserve. Di conseguenza, non dettano più legge a nessuno. Malgrado siano le migliori sul mercato, sia dal punto di vista tecnologico che patrimoniale, sono costrette a chinare il capo di fronte ai vari tiranni che controllano le riserve mondiali e alle nuove dominatrici del settore, le compagnie petrolifere statali dei Paesi produttori.
Le nuove sette sorelle, identificate in base ai livelli di produzione ma soprattutto alle riserve, appartengono a una categoria tutta diversa. Sono la saudita Saudi Aramco, la russa Gazprom, la cinese Cnpc, l'iraniana Nioc, la venezuelana Pdvsa, la brasiliana Petrobras e la malese Petronas. Tutte di proprietà statale, insieme controllano quasi un terzo della produzione mondiale d'idrocarburi e oltre un terzo delle riserve. Malgrado ciò, i loro guadagni sono notevolmente inferiori rispetto alle rivali indipendenti, che hanno una struttura integrata verticalmente tale da arrivare, con le loro raffinerie e le loro catene distributive, fino al consumatore finale. Ma anche questo rapporto è destinato a modificarsi nel tempo, con il declino delle riserve occidentali: quelle americane hanno raggiunto il loro picco nel '79 e da allora scendono, così come anche la produzione europea nel Mare del Nord. Nei prossimi trent'anni, secondo l'International Energy Agency, il 90 per cento delle nuove produzioni verrà dai Paesi in via di sviluppo. Una svolta fondamentale rispetto ai trent'anni passati, quando il 40 per cento delle nuove produzioni veniva dai Paesi industrializzati e andava ad arricchire le compagnie indipendenti.
Saudi Aramco sarà la più attiva nelle nuove produzioni: il suo piano d'espansione prevede un aumento dell'output dagli attuali 11 milioni di barili al giorno (13 per cento del fabbisogno globale) a 15 milioni di barili. Con ciò, Riad consoliderà il suo ruolo di banchiere centrale del petrolio, in grado di aprire o chiudere i rubinetti dell'energia mondiale in base all'umore del momento. In verità, i sauditi siedono su un tale mare di riserve facili da raggiungere da giocare in un girone per conto proprio. Per gli altri non è tutto così facile. L'estrazione del petrolio, soprattutto in aree disagevoli come le acque profonde del Golfo del Messico o le zone artiche della Siberia, richiede delle capacità tecniche che non tutti hanno. Gazprom, ad esempio, non le ha. E non le avrà nemmeno nel prossimo futuro. Per non parlare di Nioc o di Petrobras. I governi che le controllano, infatti, tendono a incamerare gli utili succhiati dalle viscere della terra, per devolverli alle loro clientele politiche. In questo modo impediscono alle compagnie d'investire in know-how e tecnologia, riducendo gravemente le loro capacità di produzione.
Nel 2006 il presidente venezuelano Hugo Chavez, che ha recentemente sbattuto fuori dal Paese l'Eni e la Total con una campagna di espropriazioni, ha speso i due terzi dei guadagni della Pdvsa (circa 7 miliardi) per i suoi programmi sociali. In Iran, la Nioc continua a importare gas nonostante controlli il più grande campo di gas del mondo, scoperto nel 1990 sotto il Golfo Persico: i fondi che le servirebbero per sviluppare l'estrazione devono essere incanalati nei sussidi che mantengono il prezzo della benzina a 10 centesimi di dollaro al litro nel Paese. Il piccolo Qatar, che controlla l'altra metà del campo sulla riva di fronte del Golfo, negli ultimi quindici anni è diventato una potenza mondiale nel gas liquefatto, sfruttando quelle riserve in maniera molto più imprenditoriale insieme a ExxonMobil. E il governo del Kuwait, che sta seduto su un mare di petrolio, quarto per riserve nel mondo, ha ammesso che non sarà in grado di aumentare la produzione senza la collaborazione tecnica delle compagnie occidentali. Esempi analoghi non si contano.
In complesso, secondo i calcoli del Centre for Global Energy Studies di Londra, i fattori geopolitici legati al nazionalismo rampante in Iran, Nigeria, Russia, Kuwait e Venezuela hanno ridotto la produzione mondiale di idrocarburi di 7,8 milioni di barili al giorno dal 2000 a oggi, equivalenti al fabbisogno complessivo di Germania, Francia, Italia e Spagna. Ecco da dove viene l'aumento spropositato del prezzo del petrolio. E non è finita qui. Nel prossimo quarto si secolo, secondo le stime di Faith Birol dell'International Energy Agency, per adeguare le forniture alla crescita del fabbisogno mondiale sarebbero necessari 20mila miliardi d'investimenti, considerando anche la sete di energia delle potenze emergenti. Invece, andando avanti di questo passo, ci ritroveremo con un 20 per cento di petrolio in meno rispetto a quello che ci serve. Sembra una previsione azzardata, ma essendo l'industria petrolifera un pachiderma dai tempi lunghissimi, le stime di Birol sono perfettamente plausibili. E' molto difficile modificare un trend di questo tipo, dovuto alla politica e non alla tecnologia. Già oggi abbiamo perso troppo terreno, come si vede chiaramente dalle indicazioni del mercato. Perciò sarà bene che il mondo si attrezzi a sviluppare delle fonti alternative. O a ritornare al carbone.

Etichette: