Clima: adattamento è la nuova parola d’ordine

Adattamento è la nuova parola d'ordine
per gli scienziati del clima. A ogni nuovo uragano, a ogni ondata di
siccità, l'interesse degli esperti si allontana sempre più
dall'eterno quesito "sarà colpa dell'effetto serra?" per
focalizzarsi invece sulle strategie di sopravvivenza delle comunità
più colpite.

"Le città si adattano o se ne
vanno", ha detto il sindaco di New York, Michael Bloomberg, dopo
l'uragano Sandy. E anche alla conferenza Onu di Doha sul Climate
Change si è parlato molto di "resilience",
quella capacità di recupero che manca ai moderni insediamenti
urbani. Nella relazione sui cambiamenti climatici pubblicata la
settimana scorsa dall'Agenzia europea per l'ambiente, si prevede che
gli eventi climatici estremi diventeranno sempre più intensi anche
da questa parte dell'Atlantico. Che fare, per limitare i danni? La
risposta più sintetica è imparare dall'esperienza. "Negli
ultimi cinquant'anni, i danni causati dai disastri naturali sono
cresciuti esponenzialmente, non solo per i cambiamenti climatici, ma
anche per l'aumento della popolazione globale e delle sue attività
economiche", sostiene il noto climatologo americano Roger
Pielke. Là dove prima un'onda anomala si abbatteva su una costa
deserta, senza fare danni, oggi magari si abbatte su un villaggio,
con tutte le conseguenze del caso. "Ma non bisogna rassegnarsi
all'idea che le emergenze aumentino di pari passo con le attività
umane", afferma Pielke. Il suo collega William Hooke,
dell'American Meteorological Society, concorda e porta l'esempio
dell'aviazione civile: "Nello stesso arco di tempo, il numero di
voli aerei è quadruplicato, ma gli incidenti sono rimasti costanti,
o addirittura sono calati". Qual è la differenza? Dopo un
disastro naturale, l'istinto porta a ricostruire tutto com'era prima.
Dopo un disastro aereo, invece, la prima preoccupazione è cambiare
la struttura del velivolo, nelle parti che potrebbero essere
all'origine del disastro. Chi ha ragione? L'industria aeronautica,
naturalmente.

Impervious cover

Ma ci sono anche delle città che non
si rassegnano. Chicago ha in corso un progetto per eliminare
l'asfalto da un quarto delle sue strade, che vengono trasformate in
viali alberati con una pavimentazione permeabile all'acqua, per
evitare l'effetto "tappo", che in caso di piogge
torrenziali le trasforma in fiumi. Stuttgart ha modellato la sua
pianificazione urbana sulle esigenze di mitigazione dell'isola di
calore che si forma sulla città: grazie a un attento monitoraggio,
sono stati individuati i corridoi battuti dal vento che scende dalle
colline e per non ostruirli sono state vietate le costruzioni alte su
quei tracciati. Seul, dopo aver tenuto per cinquant'anni il fiume
Cheonggyecheon imprigionato nelle sue viscere, ha smantellato
l'autostrada che ci correva sopra e lo ha restituito alla luce del
sole. Yonkers, la quarta città dello Stato di New York, ha fatto lo
stesso con il fiume Sawmill. New York sta ripristinando le vaste aree
umide che erano state bonificate lungo le sue 500 miglia di coste e
ha vietato la ricostruzione di centinaia di case spazzate via
dall'uragano. Kuala Lumpur ha costruito uno Smart Tunnel sotto il
centro, per incanalare una parte del traffico, ma anche per sfogare
le acque che montano in caso d'inondazione.

E questo è solo l'inizio. Siamo
abituati a compilare una valutazione d'impatto ambientale per
qualsiasi impianto, da un pannello solare sul tetto di casa a un
nuovo aeroporto. Ora molti esperti concordano sul fatto che lo stesso
tipo di valutazioni andrebbero fatte anche sull'impatto ambientale
degli edifici. Ricostruire là dove non c'è sicurezza del futuro non
ha senso. A maggior ragione, costruire edifici o insediamenti nuovi
in aree che sarebbe più ragionevole lasciare vuote mette a rischio
intere comunità. Pianificare guardando lontano e in sinergia con la
natura è la prima difesa contro i cambiamenti climatici.