Il petrolio va in rosso. Dopo le grandi compagnie elettriche, anche le major dell'oro nero mostrano segni di stress di fronte alla grande trasformazione in atto, malgrado la tenuta del prezzo del greggio, che dovrebbe aiutarle. Si vede dai risultati di questi giorni, ma anche dalle loro difficoltà di lungo periodo a mantenere i livelli di produzione senza svenarsi.
Shell, Total, ExxonMobil, Chevron ed Eni hanno registrato profitti netti in caduta nel terzo trimestre dell'anno, per Shell quasi di un terzo, per Eni del 29,4% (meglio del previsto), per Total del 19,4%, per ExxonMobil del 18,7% e per Chevron del 4%. Il punto dolente, in questo caso, sono i margini sempre più ristretti per la raffinazione. Exxon ha registrato una caduta dell'81% sui profitti del downstream e Shell del 49%. La congiuntura negativa sta abbattendo la domanda di prodotti raffinati, così come ha colpito la domanda elettrica, soprattutto in Europa. I produttori hanno risposto con la chiusura di moltissimi impianti di raffinazione: dal 2008 ad oggi l'Europa ha tagliato 1,7 milioni di barili al giorno di prodotti raffinati, ma sul mercato resta ancora un eccesso di capacità. I dati dell'International Energy Agency indicano che quest'anno la domanda europea di prodotti raffinati sarà di 13,5 milioni di barili al giorno, 2 milioni di barili in meno rispetto al 2008. L'eccesso di capacità nel sistema ha decisamente depresso i margini della raffinazione: Total ha ottenuto un guadagno di 10,60 dollari per la raffinazione di una tonnellata di petrolio nel terzo trimestre, contro i 51 dollari di un anno fa. Al di là della crisi economica, incide anche su questo mercato la crescente efficienza energetica del sistema europeo, che punta a ridurre progressivamente i consumi di idrocarburi a tutti i livelli, dalla produzione industriale fino ai consumi delle auto private.
Alla caduta della domanda, che colpisce il downstream, si aggiunge l'aumento dei costi nell'upstream. Le major spendono sempre di più per estrarre il petrolio, ma ne producono sempre di meno. Intrappolate in questa spirale, le grandi perdono il favore degli investitori, che tendono a preferire le compagnie più piccole e più flessibili, nate dalla nuova ondata di sfruttamento degli idrocarburi non convenzionali, come il gas e il petrolio da scisti. In complesso, il settore petrolifero è in leggero ribasso negli ultimi 18 mesi, mentre il resto del mercato ha guadagnato oltre il 20%.
I motivi di questa performance modesta possono essere diversi a seconda delle compagnie. Nel terzo trimestre, ad esempio, Eni ha riportato una caduta della produzione del 3,8%, a 1,65 milioni di barili al giorno, per i disordini "straordinari" in Libia e in Nigeria, che stanno peggiorando di giorno in giorno. Ma emerge chiaramente un trend comune. Le major devono spingersi in località sempre più remote e in ambienti tecnicamente più difficili, come le sabbie bituminose canadesi, gli idrocarburi da scisti, le acque profonde del Brasile e l'offshore artico, in giacimenti molto più costosi da sviluppare rispetto alle riserve convenzionali. Di conseguenza, le spese aumentano in tutto il settore e in qualche caso il flusso di cassa non è in grado di coprire sia spese che dividendi, per cui alcune compagnie sono state costrette a ricorrere al credito o a vendere asset per coprire questo gap. I grandi gruppi si erano già trovati altre volte a corto di risorse proprie, come nel '99 oppure all'inizio del 2009, in seguito a forti riduzioni del prezzo del petrolio. Ma stavolta non sono le quotazioni del greggio che calano, sono le loro spese che crescono.
L'aspetto positivo per le major è l'apertura di nuovi spazi per l'estrazione, anche se a caro prezzo. Fino a pochi anni fa, sembrava scontato che gli unici giacimenti sfruttabili fossero in aree politicamente off limits, come il Medio Oriente, la Russia, il Venezuela o l'Asia Centrale. I grandi gruppi indipendenti avevano reagito sfruttando giacimenti sempre più complessi, nell'Artico europeo, in Alasca o nelle acque profonde del Golfo del Messico. Ma le opportunità di crescita sembravano ridursi rapidamente. Ora non è più così. Come ha detto il capo di Shell Peter Voser, "non siamo più limitati dalla mancanza di opportunità, ma dalle carenze di capitale". Non è chiaro se questo ottimismo basterà a riportare a casa gli investitori.