La popolazione mondiale cresce al ritmo di 80 milioni di individui all’anno e potrebbe toccare gli 11 miliardi alla fine di questo secolo. Nel contempo, la disponibilità di terreno si riduce e i cambiamenti climatici portano piogge sempre più erratiche. Solo un nuovo modo di coltivare e di mangiare riuscirà a reggere questa crescita demografica senza precedenti.
Da qui alla fine del secolo, la produzione agricola dovrebbe aumentare almeno del 50% per sfamarci tutti, a partire da una modesta area di terreno fertile, che copre solo l’11% della superficie globale della terra. Il problema è che questa piccola area non si può ampliare, anzi, si sta rapidamente riducendo. Ogni anno, infatti, l’agricoltura mondiale perde 75 miliardi di tonnellate di suolo fertile, l’equivalente di 10 milioni di ettari, a causa dell’erosione e dell’avanzata del deserto e del mare. Altri 20 milioni di ettari vengono abbandonati perché la qualità del terreno è troppo degradata per coltivarlo, in larga misura per colpa delle tecniche agricole intensive. La perdita di fertilità del suolo porta alla riduzione della produzione agricola: un calo del 50% della materia organica porta a un taglio del 25% dei raccolti.
Il fenomeno non è uguale dappertutto, ma procede particolarmente veloce proprio nelle aree che avrebbero più bisogno di ampliare le coltivazioni. In Cina la desertificazione procede a colpi di 3600 chilometri quadrati ogni anno, tanto che Pechino sta cercando di ripiantumare una cintura di alberi lunga 4500 chilometri, per arginare l’avanzata del deserto dei Gobi. In Africa il fenomeno è altrettanto marcato, ma il Sahara Green Wall, lanciato per combattere la desertificazione del Sahel con 300 milioni di alberi, si scontra con le necessità alimentari di un continente in corsa da 1 a 4 miliardi di abitanti.
Se da un lato il terreno fertile diminuisce, d’altra parte l’agricoltura, che usa già il 70% dell’acqua dolce disponibile, dovrebbe essere capace di incrementare del 50% la produzione globale senza usare più acqua e tagliando drasticamente l’utilizzo dei concimi che avvelenano il suolo, anche perché il fosfato, principale componente di tutti i fertilizzanti, è una risorsa sempre più scarsa.
Ecco perché i contadini di domani dovranno per forza essere molto diversi da quelli di oggi. Innanzitutto dovranno diventare coltivatori urbani: se è vero che nel 2050 saremo al 66% cittadini, è naturale che anche la produzione di cibo si trasferisca in città. Con le tecniche di coltivazione idroponica, l’illuminazione a led e la somministrazione controllata dell’esatta quantità di umidità e nutrienti necessari, le fattorie verticali potrebbero produrre raccolti a ciclo continuo tutto l’anno, 20 volte più produttivi dell’appezzamento di terreno su cui sorgono. Potrebbero riciclare l’acqua che la città butta via, filtrandola e rimettendola in circolazione. Potrebbero produrre con il sole, il vento e la biomassa di scarto tutta l’energia necessaria per far funzionare ogni fattoria a impatto zero.
Poi dovranno sviluppare un rapporto più intimo con le piante che coltivano, affinando le tecniche dell’agricoltura biologica, per ridurre l’utilizzo di fertilizzanti e pesticidi. Per proteggere i loro campi dall’erosione e ricreare suolo fertile attraverso i residui organici, dovranno seminare senza lavorare il terreno, lasciandoci sopra a decomporre i resti delle piante coltivate l’anno prima, cercando di riprodurre i cicli naturali. E dovranno avere sempre più dimestichezza con le tecnologie digitali, per accedere in tempo reale alle previsioni meteo o ai prezzi correnti sul mercato delle materie prime.
Resta infine un’ultima frontiera, che in Europa si fa fatica a valicare: la conoscenza genetica delle piante consentirebbe di introdurre delle modifiche per renderle naturalmente resistenti ai parassiti, che abbattono di un terzo la produttività agricola del mondo, malgrado l’utilizzo diffuso di pesticidi. Ridurre questa perdita sarebbe come creare più terra e più acqua.