David Brandt ha la camicia a scacchi, la tuta, gli stivali sporchi di fango e coltiva 500 ettari di terra a Carroll, in Ohio. Sembra un contadino come tutti gli altri, ma nel 1971 Brandt ha venduto il suo aratro e da allora semina senza lavorare il terreno, lasciandoci sopra a decomporre i resti delle piante coltivate l’anno prima, per ricreare suolo fertile attraverso i residui organici. Cercando di riprodurre i cicli naturali, con la diretta collaborazione di una moltitudine di microrganismi, come i lombrichi, i funghi e i batteri, che costituiscono la base della fertilità dei terreni non coltivati, Brandt ha smesso quasi del tutto di usare fertilizzanti e pesticidi sintetici. In questo modo, produce quanto i suoi vicini, ma spende la metà. E per di più restituisce alla terra tutto quello che prende, proteggendo così il terreno dal depauperamento tipico di tutte le aree agricole.
Dalle sue parti questo tipo di agricoltura, concepita in prima battuta dal botanico giapponese Masanobu Fukuoka, si chiama no-till farming e i contadini senza aratro negli Stati Uniti sono ormai un fenomeno sempre più diffuso. L’area coltivata senza lavorare il terreno è cresciuta da 7 milioni di ettari nel 1990 a 30 milioni di ettari nel 2010. La pratica no-till si espande anche nel resto del mondo, soprattutto in America Latina, dove in alcuni Paesi raggiunge il 70% dei terreni coltivati. In Brasile, il Paese più impegnato su questo fronte, copre ormai quasi 30 milioni di ettari, in Argentina oltre 20 milioni, 13 milioni in Canada e 12 milioni in Australia. In Europa, invece, è una pratica molto poco seguita.
Si dà il caso, però, che questa pratica sia l’unica via d’uscita per salvare il mondo dalla grave carestia a cui stiamo andando incontro. Nel giro di 40 anni, infatti, la popolazione mondiale avrà 2 miliardi di persone in più e la produzione di cibo dovrebbe aumentare almeno del 40% per sfamarle, a partire da una modesta area di terreno fertile, che copre solo l’11% della superficie globale della terra. Il problema è che questa piccola area non si può ampliare, anzi, si sta rapidamente riducendo. Ogni anno, infatti, l’agricoltura mondiale perde 75 miliardi di tonnellate di suolo fertile, l’equivalente di 10 milioni di ettari di terreno, a causa dell’erosione e dell’avanzata del deserto e del mare. Altri 20 milioni di ettari vengono abbandonati agni anno perché la qualità del terreno è troppo degradata per coltivarlo, in larga misura per colpa delle tecniche agricole tradizionali.
Il sottile strato di suolo fertile che ricopre la terra, profondo in media 15 centimetri, si è costituito in lunghe ere geologiche, quando la formazione del suolo era superiore ai ritmi dell’erosione naturale. L’agricoltura tradizionale riduce questo strato di circa un millimetro all’anno, un fenomeno troppo poco rilevante perché qualcuno se ne preoccupi. Ma in questo modo nel giro di 20 anni lo strato fertile del terreno si abbassa di 2 centimetri: per ricostituirli ci vorranno 200-1000 anni, a seconda delle condizioni. La perdita di fertilità del suolo porta alla riduzione della produzione agricola: un calo del 50% della materia organica porta a un taglio del 25% dei raccolti.
La perdita di suolo fertile procede a velocità diverse a seconda delle aree della terra. La desertificazione della Cina è probabilmente la più rapida. Dal 1950 al ’75 circa 1500 chilometri quadrati di suolo cinese all’anno si sono trasformati in deserto, ma la tendenza è in accelerazione. Attorno al 2000 si è arrivati a 3600 chilometri quadrati desertificati ogni anno. Negli ultimi cinquant’anni, oltre 24mila villaggi nel Nord e nell’Ovest della Cina sono stati abbandonati per l’avanzare della sabbia. Pechino si difende piantando alberi: dalla capitale alla Mongolia, sta cercando di piantumare una cintura di alberi lunga 4500 chilometri, per arginare l’avanzata del deserto dei Gobi. L’obiettivo era riempire di alberi 10 milioni di ettari di terreno, ma la necessità di espandere la produzione di cibo sta rallentando questo progetto. In Africa il fenomeno è altrettanto marcato. Di qui, il lancio dell’iniziativa Sahara Green Wall, per combattere la desertificazione del Sahel con 300 milioni di alberi su una cintura di 3 milioni di ettari. Ma anche qui premono le necessità alimentari di un continente che in poco più di mezzo secolo ha visto la sua popolazione crescere da 230 milioni di persone nel 1950 a 1 miliardo nel 2010.