La via italiana alla concentrazione

Nei primi anni Duemila sembrava che il boom del solare termodinamico a concentrazione fosse imminente. Il grande progetto Desertec, per produrre in Nord Africa con il sole il 15% dell’energia elettrica europea e trasferirla via cavo sottomarino, però, si è arenato nelle secche delle primavere arabe. Da allora ad oggi, gli unici due Paesi che si sono dedicati a investire con continuità in questa tecnologia sono stati la Spagna e gli Stati Uniti. In Spagna, nei mesi estivi (da giugno a settembre), il solare termodinamico ha coperto quest’anno il 4% dei consumi elettrici del Paese, con una potenza complessiva di 2,3 gigawatt su una trentina di centrali. Gli impianti a concentrazione hanno prodotto più o meno quanto il solare fotovoltaico, che ha una potenza installata più che doppia. Negli anni a venire, la nuova frontiera del solare termodinamico potrebbe diventare la Cina, che ha messo in cantiere venti progetti diversi per identificare la tecnologia più efficiente.

In Italia, i valori d’insolazione sono analoghi a quelli della penisola iberica e quindi i risultati potrebbero essere simili, ma per ora non è stata realizzata nemmeno una centrale solare commerciale, solo prototipi di piccole dimensioni, e anche quelli con molte resistenze da parte degli enti locali. Eppure l’Italia ha prodotto, oltre che il primo brevetto in assoluto per un collettore solare (Alessandro Battaglia nel 1886), anche la tecnologia più avanzata per il solare termodinamico, basata su un fluido vettore a sali fusi inventato da Carlo Rubbia, sviluppato dall’Enea e industrializzato da Archimede Solar di Gianluigi Angelantoni.

Gli impianti solari a concentrazione realizzati in giro per il mondo per scopi commerciali usano olio sintetico, che scorre in un tubo su cui file di specchi parabolici concentrano le radiazioni solari, fino a scaldarlo a circa 390°C, per poi produrre energia elettrica con un convenzionale ciclo di turbina a vapore. Gli impianti più vecchi possono funzionare solo durante il giorno – quando è disponibile la luce solare diretta – mentre in quelli di ultima generazione è stato aggiunto un accumulo di calore, sotto forma di sali fusi, per produrre elettricità anche di notte. I prototipi di Archimede Solar, invece, sono i primi a utilizzare i sali fusi non solo per immagazzinare il calore ma anche per raccoglierlo direttamente nei tubi su cui si concentrano le radiazioni solari.

Questa innovazione rappresenta un vantaggio competitivo notevole, sia perché i sali fusi possono arrivare a temperature più elevate rispetto all’olio (550°C contro 390°C), aumentando quindi la potenza dell’impianto ed estendendo le sue ore di funzionamento ben oltre un impianto a olio con accumulo di sali fusi, sia perché usare i sali fusi direttamente come fluido vettore consente una progettazione semplificata, evitando la necessità di scambiatori di calore olio-sali ed eliminando i problemi di sicurezza e ambientali legati all’uso di olio. I sali fusi, infatti, sono fertilizzanti comuni poco costosi, non sono tossici e non prendono fuoco, al contrario degli oli sintetici attualmente utilizzati negli impianti solari a concentrazione di tutto il mondo. Infine le temperature più elevate raggiunte dai sali fusi consentono l’uso di turbine a vapore ai parametri standard di pressione e temperatura utilizzati nelle più comuni centrali elettriche a gas. Ciò significa che le centrali elettriche convenzionali possono essere integrate – o, in prospettiva, sostituite – con questa tecnologia senza costosi adattamenti.

La prima centrale solare commerciale a sali fusi del mondo, da 55 megawatt di potenza, è attualmente in costruzione nel Nord Ovest della Cina, a Akesai, con l’obiettivo di entrare in funzione nel 2018. E in questi giorni la sede del gruppo Angelantoni a Massa Martana, in Umbria, pullula di partner cinesi, con cui Archimede Solar spera di concordare un primo raddoppio dell’impianto. “Se i cinesi ci crederanno non c’è limite alle possibilità di crescita”, rileva Angelantoni. Ma in tal caso questa tecnologia italiana se ne andrà in Asia, per cogliere le opportunità che in Italia non si sono presentate. “Per fare affari in Cina bisogna andare a produrre sul loro territorio, altrimenti si resta tagliati fuori”, conferma Angelantoni. Non c’è altra scelta per salvare questa tecnologia che fa fatica a sfondare, non avendo trovato ascolto nelle utilities di casa nostra, che non amano il rischio. Alla faccia del Paese del sole.