La sostenibilità ripaga in qualità

La prima a sentire il fiato del clima sul collo è l’industria alimentare. Già oggi il pessimo raccolto delle nocciole turche mette in difficoltà la Nutella e la siccità in California fa impennare il prezzo delle mandorle o delle arachidi. Ma in prospettiva anche il miele e lo sciroppo d’acero potrebbero diventare prodotti di lusso a causa dei cambiamenti climatici, per non parlare del triste destino della cioccolata o del caffè, che secondo vari studi sono in grave pericolo per colpa delle temperature in aumento in Africa, da dove proviene metà del cacao consumato al mondo e la migliore qualità di Arabica. Perfino i vignaioli di Francia cominciano a sentire i primi segni di cambiamento, ad esempio un aumento nel contenuto di zuccheri e un calo nell’acidità dell’uva, oltre a un anticipo di un paio di settimane per la stagione della vendemmia.

Non a caso proprio le aziende che ci danno da mangiare e sono coinvolte nelle pratiche più controverse dell’agricoltura senza scrupoli stanno cominciando a reagire in maniera più decisa ai pericoli che minacciano direttamente il loro business.

“La sostenibilità per noi è una scelta obbligata, solo così riusciamo ad ottenere la qualità di caffè che i nostri clienti ci chiedono”, sostiene Guillaume Le Cunff, responsabile sostenibilità di Nespresso, il numero uno mondiale delle capsule monodose, che ha appena annunciato un investimento di oltre 400 milioni di euro nei prossimi sei anni per migliorare la sostenibilità del prodotto, con il sostegno di Rainforest Alliance e Fairtrade International. Nespresso mette nelle sue capsule solo caffè che proviene per oltre l’80% da coltivazioni che rispettano altissimi parametri di sostenibilità e si è impegnata ad arrivare al 100% entro il 2020. “Il caffè migliore è quello che matura più lentamente, per cui nelle piantagioni che utilizziamo bisogna per forza far crescere anche degli alberi, che facciano ombra sulle piante del caffè, in modo da non esporle alla luce diretta del sole”, spiega Le Cunff. Le miscele usate da Nespresso, inoltre, provengono da piantagioni di montagna, dove il territorio non può essere sfruttato in maniera intensiva e dove i coltivatori raccolgono a mano solo le bacche già mature: non più del 10% della produzione mondiale di caffè viene coltivato in questo modo.

Unilever è un’altra multinazionale alimentare che si sta impegnando sul fronte della sostenibilità: da quest’anno, ad esempio, assicura la tracciabilità al 100% dell’olio di palma che utilizza nei suoi prodotti, in modo da non incorrere nelle sanzioni contro i Paesi che praticano la deforestazione selvaggia per soppiantare le foreste con le coltivazioni intensive di palme da olio. Paul Polman, numero uno del colosso anglo-olandese, si è speso molto anche con i concorrenti per spingere l’intero settore verso pratiche più sostenibili e ha aderito insieme a Starbucks, Kellogg’s, General Mills e Mars al Business for Innovative Climate & Energy Policy, un’iniziativa che ha come principale obiettivo l’opera di lobbying per indurre i governi a varare legislazioni più stringenti in materia di clima e di emissioni.

Una situazione analoga a quella dell’olio di palma interessa la coltivazione della canna da zucchero, una materia prima su cui la pressione della domanda crescente è enorme: si calcola che da qui al 2020 la domanda globale di zucchero crescerà del 25% e le coltivazioni intensive stanno distruggendo ampie aree di foresta tropicale. Oltre la metà della produzione mondiale di zucchero finisce nelle catene di montaggio dell’industria alimentare, in primis quelle che sfornano soft drinks. Da qui l’impegno di colossi come Coca-Cola (primo cliente mondiale dell’industria dello zucchero) e PepsiCo per smarcarsi da questo trend, rendendo pubbliche i suoi fornitori ed escludendo i Paesi dove dominano le pratiche di deforestazione selvaggia.

Ma gli attivisti dell’ambiente chiedono di fare ancora di più: Greenpeace ha lanciato un appello alle multinazionali alimentari, che rischiano grosso nel processo di riscaldamento del clima, perché facciano pressione sulle industrie che sono all’origine del grosso delle emissioni, in particolare le compagnie energetiche. Nella lista nera di Greenpeace, delle 90 società che emettono più gas a effetto serra e che da sole sono responsabili dei due terzi dei gas serra globali, quasi tutte, tranne sette, operano nel settore del petrolio, del gas e del carbone. L’idea di Greenpeace è semplice: sta ai capi delle società danneggiate bloccare i sussidi pubblici a quelle più dannose e favorire la transizione del mondo verso le fonti rinnovabili. Un’idea che a poco a poco sta prendendo piede ai piani alti del Big Food.