L’agricoltura si fa prossima

Nel 1900, solo il 10% della popolazione mondiale viveva in città. Oggi, invece, oltre la metà dell’umanità si concentra in agglomerati urbani sempre più densi. E le previsioni dicono che già nel 2050 saremo all’80% cittadini. Da qui nasce l’idea dell’agricoltura urbana. Per alimentare tutta questa gente, quale sistema migliore di costruire in loco le fattorie dove cresceranno le piante destinate a sfamarla? Un’agricoltura di prossimità servirebbe anche per ridurre l’impronta agricola delle città, che divora sempre più territorio.

L’impronta agricola di New York, ad esempio, ha ormai raggiunto le dimensioni della Virginia. Non a caso è nato proprio New York il primo laboratorio mondiale in materia di vertical farming, grazie a Dickson Despommier, un professore della Columbia che predica l’agricoltura urbana già da vent’anni. L’idea di Despommier, oggi in via di sperimentazione con metodi sempre più sofisticati, è di convertire all’agricoltura interi grattacieli. Il primo problema delle coltivazioni urbane, infatti, sta nell’alto valore immobiliare delle aree cittadine: è impossibile dedicare dei terreni urbani all’agricoltura, così come si farebbe in campagna, tranne in casi eccezionali, come quello di Detroit, dove il centro massacrato dalla crisi dell’auto si va popolando di orti urbani nei lotti vacanti.

Nel 2000 Despommier concepì l’idea di rendere Manhattan autosufficiente, trasformando in orti tutte le terrazze in cima ai grattacieli, ma scoprì ben presto che una superficie di circa 5 ettari non sarebbe stata sufficiente per alimentare quasi due milioni di persone. Allora mise a lavorare un team di ricercatori per definire meglio i dettagli tecnici ed economici delle fattorie verticali, arrivando a concepire un grattacielo di 30 piani in grado di nutrire 50mila persone per tutto l’anno, con un sistema idroponico di coltivazione in condizioni controllate, senza pesticidi e inquinamento. Il suo progetto attirò l’attenzione di diverse municipalità, da Chicago a Las Vegas, da Shanghai a Inchon, in Sud Corea, ma il primo esempio concreto di una realizzazione economicamente ed ecologicamente sostenibile è quello di Sky Greens, una società di Singapore che dal 2012 coltiva ortaggi con il sistema idroponico in una serie di torri di tre-quattro piani, consumando risorse minimali di terreno, energia e acqua. Un altro esperimento analogo, quello di Green Sense Farms, vera e propria fabbrica di ortaggi biologici vicino a Chicago, è partito l’anno scorso con 30mila metri quadri di superficie distribuiti su 14 torri alte otto metri ciascuna. Quindi niente grattacieli: per ora il vertical farming si accontenta di edifici più bassi.

L’idea di Despommier, apparentemente ragionevole, pone infatti una serie di problemi pratici non facili da risolvere. Le piante coltivate al chiuso hanno bisogno di luce artificiale e temperature costanti, con il rischio di consumare più energia rispetto agli ortaggi coltivati in campo aperto e quindi di aggravare l’impronta ambientale dell’insalatina che alla fine ci troveremo nel piatto. Uno dei consumi principali è legato all’utilizzo delle lampade a led, molto più efficienti delle lampadine a incandescenza, ma pur sempre energivore, con un’efficienza pari al 28% dell’energia assorbita.

A Singapore, gli orti verticali realizzati da Sky Green hanno a disposizione molta luce naturale, perché ogni fila di piantine si muove con una specie di ascensore all’interno di torri interamente composte da vetrate. In questo modo si riducono notevolmente i consumi di illuminazione. Le Green Sense Farms, invece, utilizzano migliaia di led blu e rossi forniti da Philips, che emettono precisamente la lunghezza d’onda richiesta dalle piantine di lattuga, rucola, cavolo nero, piselli, erba cipollina, menta, origano, prezzemolo, salvia e basilico coltivate nello stabilimento di Chicago. In questo modo la start-up riesce a ottenere 25 raccolti all’anno e afferma di consumare un quarto dell’energia normalmente impiegata per coltivare gli stessi ortaggi in campo aperto o in serra.

Un altro elemento che gioca a favore del vertical farming è l’efficienza nella gestione idrica. Oggi il 70% dell’acqua dolce consumata nel mondo viene utilizzata in agricoltura, mentre le coltivazioni verticali hanno bisogno solo del 2-5 per cento dell’acqua che servirebbe per irrigare un campo, anche grazie al riutilizzo dell’umidità creata nell’ambiente stesso. Il sistema idroponico, poi, consente di ottenere da quattro a sei raccolti in più all’anno rispetto al metodo tradizionale.

Per ridurre ulteriormente l’impatto ambientale e i costi, si potrebbe pensare a riciclare l’acqua che la città butta via, filtrandola e rimettendola in circolazione. Per rendere le fattorie verticali energeticamente autonome, si potrebbero riutilizzare gli scarti delle biomasse per produrre energia elettrica, aggiungendo sistemi fotovoltaici e geotermici per ridurre a zero l’impatto energetico del sistema. Ma per ora non ci siamo ancora arrivati.