Per mettere le carte in tavola ci sono voluti vent’anni. Ora ci siamo. Oltre 150 Paesi, equivalenti al 90% delle emissioni mondiali di gas a effetto serra, hanno presentato all’Onu i propri piani volontari di riduzione delle emissioni in vista della Cop21, la conferenza mondiale sul clima, che riunirà a fine mese 195 Paesi a Parigi con l’obiettivo di concludere, per la prima volta nella storia, un trattato vincolante e universale per fermare il riscaldamento globale entro la soglia critica dei 2°C dai livelli preindustriali. Le dichiarazioni d’intenti già presentate non bastano a raggiungere l’obiettivo, ma sono un buon punto di partenza, grazie soprattutto alla mobilitazione dei due pesi massimi mondiali, la Cina e gli Stati Uniti, che fino ad oggi non avevano ancora mai preso impegni formali.
Continuando a bruciare idrocarburi al ritmo attuale, in base alle proiezioni dei climatologi, il riscaldamento globale sarebbe destinato a raggiungere i 3,5 gradi entro la fine del secolo, un livello incompatibilie, a giudicare dalle prime avvisaglie, con la civiltà umana come la conosciamo oggi. Non solo l’innalzamento dei mari e le città costiere sott’acqua, ma anche la trasformazione in deserto di vaste aree attualmente abitate e coltivate, l’aumento di uragani devastanti e i conseguenti spostamenti di popolazione, trasformerebbero il pianeta in un luogo sempre più inospitale per la specie che ci sta più a cuore, la nostra. I cambiamenti climatici che vediamo già oggi, con un riscaldamento globale medio di 0,8°C in base ai calcoli dell’Ipcc, sono un assaggio di quel che arriverà nel giro di pochi decenni. Se i governi mondiali rispetteranno gli impegni sulle emissioni presi in vista della Cop21, invece, l’aumento a fine secolo sarà di 2,7 gradi rispetto al 1750. Non siamo ancora sotto i 2 gradi, ma s’intravvede finalmente un percorso globale di controllo delle emissioni, grazie all’accelerazione imposta alle politiche energetiche dalla necessità di mettere le carte in tavola prima di Parigi. Ora manca uno sforzo finale, su cui le diplomazie mondiali sono impegnate a fondo in quest’ultimo mese di negoziati, concentrati soprattutto sui 100 miliardi all’anno di finanziamenti a progetti di crescita sostenibile che i Paesi industrializzati si sono impegnati a trasferire ai Paesi emergenti, a partire dal 2020.
L’obiettivo è scindere nettamente la corsa della crescita economica mondiale da quella dei consumi di idrocarburi. Dalla rivoluzione industriale fino all’altro ieri, le due linee ascendenti si sono mosse perfettamente parallele: per far crescere l’economia bisognava necessariamente bruciare più idrocarburi, aumentando l’effetto serra. L’anno scorso, per la prima volta dall’invenzione della macchina a vapore, le due linee hanno cominciato a disaccoppiarsi, grazie al rapido sviluppo delle tecnologie pulite: l’economia globale ha continuato a crescere del 3% o poco più, mentre i consumi di idrocarburi sono rimasti piatti e di conseguenza anche le emissioni di gas a effetto serra. Ora la parola d’ordine è “piegare quella linea” in una curva discendente. Uno sforzo non da poco, considerate le esigenze energetiche crescenti dei Paesi emergenti, dove la popolazione aumenterà di altri 2 miliardi di individui da qui a fine secolo.
Lo sforzo sarà soprattutto in capo al settore energetico, che genera i due terzi dei gas a effetto serra e che dovrebbe ridurre progressivamente gli investimenti nelle fonti fossili, fino a eliminarli del tutto, trovando delle tecnologie alternative per alimentare la crescita economica dell’umanità. Solo per rispettare le promesse presentate all’Onu il settore energetico dovrà investire nelle tecnologie pulite 13.500 miliardi di dollari in più da qui al 2030, con una media annua di 840 miliardi, in base al rapporto dell’International Energy Agency, dove si analizzano le implicazioni degli impegni presi dalle nazioni. Per raggiungere l’obiettivo dei 2 gradi, secondo l’agenzia, ci vuol altro: mille miliardi di dollari all’anno in più rispetto a oggi, da investire nelle fonti pulite e nell’efficienza energetica. Uno sforzo notevole, me non irraggiungibile. Disinvestire rapidamente mille miliardi all’anno dalle fonti fossili, per dirottarli verso l’energia pulita, ci consentirebbe di arrivare a un picco delle emissioni globali nel 2020, per poi farle declinare.
Molte di queste misure sono già previste nei piani volontari di riduzione. La Cina, ad esempio, include nel suo piano la realizzazione da qui al 2030 di una quantità di impianti energetici non fossili equivalente a tutto il parco americano di generazione elettrica, puntando sia sulle rinnovabili che sul nucleare. Ma c’è ancora spazio per alzare l’asticella di queste ambizioni. Da qui alla fine del mese, bisogna delineare una svolta epocale per il futuro energetico del pianeta: un nuovo “programma Apollo” – come lo ha definito un gruppo di scienziati inglesi, fra cui David King, rappresentante alla Cop21 del governo britannico – non più per andare sulla luna, ma per contenere il riscaldamento globale entro i 2 gradi.